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Divario tra Nord e Sud al momento dell'unificazione
20 febbraio 2006

I PARTE Nel ringraziare nella persona del Dott. Felice de Sanctis l'intera redazione di Quindici on line per avermi “virtualmente” accolto come suo collaboratore, vorrei precisare alcuni aspetti metodologici e contenutistici della rubrica Storia del Mezzogiorno e del meridionalismo. Essa si caratterizza per una serie di articoli sui diversi aspetti della storia del Sud d'Italia e del dibattito meridionalista, che avranno ora la forma del saggio breve divulgativo, ora quella della recensione, ora, infine, quella dell'intervista. Prima di esporre sinteticamente gli eventi fondamentali della storia del Mezzogiorno postunitario, ho ritenuto opportuno soffermarmi, con un paio di articoli, su una questione cruciale del dibattito storiografico sul Mezzoggiorno: lo stato del divario tra Meridione e Settentrione al momento dell'unificazione. All'interno della cornice critica di riferimento che sarà delineata bisognerà inquadrare gli articoli successivi, con i quali saranno ricordati gli avvenimenti più importanti della storia del Meridione, gli esponenti di rilievo del meridionalismo e le recenti acquisizioni critiche sugli argomenti in questione. Uno dei temi centrali sui quali il dibattito storico-politico ha a lungo mantenuto desto l'interesse è se il divario delle condizioni sociali, economiche, politiche e culturali tra Nord e Sud sia il portato dell'unificazione o affondi le sue radici nei secoli precedenti. È una questione fondamentale, che implica un diverso atteggiarsi della ricerca storiografica circa la valutazione delle politiche dei governi postunitari, compresi quelli della recente era repubblicana. In altri termini, sono state le scelte politiche effettuate dai primi governi postunitari a determinare la relativa arretratezza del Sud d'Italia e a dimostrarsi poi incapaci di porvi rimedio a partire dal secondo dopoguerra? O la profondità delle radici storiche dei problemi che tuttora travagliano il Mezzogiorno rappresenta un'importante attenuante da tenere in considerazione nel valutare l'azione dei governi postunitari? Relativamente a questo problema di fondo, è possibile individuare due diverse tendenze storiografiche: quella di impronta liberale, che ha evidenziato la profondità delle radici storiche dei problemi del Meridione e quella di orientamento marxista eterodosso, che, invece, ha messo in evidenza la sostanziale uniformità delle condizioni socio-economiche vigenti all'atto dell'unificazione tra le regioni settentrionali e quelle meridionali. Nella Storia del Regno di Napoli, Benedetto Croce ha individuato le radici della divergenza tra le due Italie negli avvenimenti storico-politici del XIII secolo, quando con la frattura dell'unità del Regno normanno-svevo si determinò la contrapposizione tra l'angioino Regno di Napoli e l'aragonese Regno di Sicilia. Da quella frattura si generarono contese, alimentate dai feudatari, tra i pretendenti ai troni, che a loro volta fomentarono la ribellione dei feudatari. Ne conseguì che mentre nel resto d'Italia la feudalità andava progressivamente decadendo, nel Regno di Napoli e in quello di Sicilia essa, invece, si rafforzava e degenerava in un sistema di perversione, corruzione ed anarchia. Secondo Croce, la storia del Regno di Napoli a partire dal XIII secolo non può essere affatto paragonata alla storia delle regioni dell'Italia centro-settentrionale, in cui negli stessi secoli fioriva la civiltà comunale prima e quella rinascimentale poi. Addirittura Croce ha sostenuto che quella di Napoli è “una storia che non è storia”, in quanto nel corso dei secoli non ci sono stati cambiamenti sostanziale. Nel saggio Mezzogiorno medievale e moderno, Giuseppe Galasso ha integrato la tesi crociana, sottolineando che l'aspetto discriminante tra le regioni settentrionali e quelle meridionali risiede nel fatto che le forze sociali, economiche, culturali, politiche e militari che nelle prime determinarono il lungo ciclo storico iniziato dopo l'anno Mille erano endogene, mentre nelle seconde intervennero quasi sempre delle forze esogene, che ai fini del loro predominio tesero alla conservazione del sistema feudale. Da ciò derivarono le condizioni per la creazione di una civiltà dai caratteri sostanzialmente omogenei al Settentrione e del prevalere dei particolarismi e del ripiegamento su se stessi nel Meridione e nelle Isole. Inoltre, Galasso ha sottolineato che nell'800 la presenza nel Mezzogiorno di varie imprese nei settori della metallurgia, della meccanica, del tessile e degli alimentari non deve essere considerata di per sé sinonimo di sviluppo, sia perché gli investitori, nella loro maggioranza, erano stranieri, e non furono emulati da imprenditori locali, sia perché la maggioranza degli addetti era costituita da bambini e da donne. Dato questo che testimonia il carattere saltuario e stagionale di tali attività produttive. Quanto poi all'esistenza nel Mezzogiorno di un numero ingenti di capitali, il loro mancato investimento in attività produttive prima e il loro deflusso per l'acquisto dei beni ecclesiastici e demaniali poi, sarebbe di per sé un indizio dell'assenza nel Meridione di possibilità di investimenti redditizi. Dunque, secondo la storiografia di orientamento liberale, il divario tra Nord e Sud non è una conseguenza diretta dell'unificazione, ma affonda le sue radici nei secoli del Basso Medioevo, durante i quali si cristallizzò una situazione di arretratezza sociale, economica, politica e culturale di difficile soluzione, successivamente ereditata dai governi unitari. Salvatore Lucchese
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