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Al merlo che canta sull'ultima casa di Cleo Presentato il libro di Loredana Pietrafesa
15 febbraio 2005

Malinconia soffusa di poesia. È la sensazione che ci attanaglia sin dal primo risuonare delle note del “Chiaro di luna” di Beethoven, nella raffinata esecuzione del giovanissimo pianista Emanuele Petruzzella. Quale ausilio migliore di quello della musica a commentare l'elegiaco e crudo romanzo di Loredana Pietrafesa, docente di scuola media, pianista e clavicembalista? Introdotta dal presidente della Fidapa, la prof.ssa Elisabetta Depalo, e dal prof. D'Elia, comincia così la presentazione di “Al merlo che canta sull'ultima casa di Cleo”, prima prova narrativa dell'autrice (moglie di Donato Altomare), seguita a ben sei volumi di poesie. È la sensibilità vivissima della pittrice e scrittrice Marisa Carabellese, a guidarci, con eleganza e compartecipe intensità, nel mondo della Pietrafesa. Lucana, nata nella terra 'dei briganti e degli enigmi', in un silenzio di rocce che a volte parrebbe voler urlare al mondo un dolore atavico e compresso, molfettese d'adozione, la scrittrice ha dichiarato, in una raccolta dal titolo programmatico, il suo 'esser di luna'. Di luna come il suo bambino, Iuri, silenzioso protagonista di quest'autobiografia di lucidità estrema. Iuri, come il viaggiatore delle stelle, a Gagarin accomunato dal suo nuotare verso l'assoluto, lasciando la madre sola col piccolo, e già maturo, Ivan e con la 'sontuosa bellezza' di Cleopatra (enigmatico il titolo; il mistero ripostovi resiste sino all'ultima pagina). Una sorta di noir, con in incipit la sonata in si bemolle di Liszt e a suggello, in musicale Ringkomposition, il fischio modulato di un merlo che, appollaiato sull'ultima casa di Cleo, scatena il flusso inarrestabile di una memoria ch'è sofferenza (quella di un bimbo condannato dall'incuria di superficiali pseudo-specialisti), ma è anche costellata di piccole/grandi gioie. Chiamati a testimoniare, forse in difesa dei medici, il prof. Iaccarino, ginecologo, e il dott. Zanna, oncologo, non si profondono in un inopportuno autodafé della categoria: il primo, scrupoloso nel seguire la successiva gravidanza di Loredana, evidenzia le carenze a livello assistenziale palesate dall'angosciata sensibilità della mater dolens; il secondo, aprendosi a considerazioni filosofiche sull'utilitarismo ipocrita di certe 'eutanasie', ricorda lo straordinario amore della donna per il piccolo Iuri, un 'povero spastico', un 'vegetale' secondo le parole di un primario arrogante e borioso, bimbo dotato, invece, di una resistenza che, se fosse vissuto di più, gli avrebbe forse costellato la vita di altri graduali, sensibili progressi. Sulle note di “Il poeta ha parlato” di Schumann, la serata si conclude, ma la meditazione ferve negli spettatori. Ferve e si sofferma su medici impietosi, simili a gufi bianchi dal trespolo degli imperi delle loro fredde meditazioni, sulle 'mute lacrime spente' di Loredana, sulla saggezza impietosa di un coro di amici, parenti e paesani, che sentenzia il carattere liberatorio di una morte ingiusta. Sulle kafkiane anticamere in reparti di ospedali, dinnanzi a porte chiuse, dietro cui si trincera l'ostentato cinismo di un'aristocrazia della sapienza che non guarisce e si limita a confinare il dolore fuori dall'uscio... Gianni Antonio Palumbo gianni.palumbo@quindici-molfetta.it
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