Il fenomeno della schiavitù domestica, antico e diffuso nell’Europa cristiana, ha lasciato espressivi segni e vivaci memorie nel patrimonio storico, agiografico, letterario ed artistico della nostra cultura. La legislazione del Viceregno spagnolo di Napoli, sia pure in modo discontinuo e non organico, aveva disciplinato la materia con bandi e prammatiche. Gli schiavi non potevano essere esportati, non potevano tornare nei loro luoghi di origine, quantunque battezzati ed affrancati. I loro padroni dovevano denunziare nella cancelleria della rispettiva Udienza, i dati anagrafici, il titolo e le modalità di acquisto, e di eventuale affrancazione. Infine, non poteva farsi commercio di schiavi senza la preventiva licenza delle autorità, che tassavano le compravendite, e ritenevano per sé quote del “materiale”. Qualsiasi sospetto di epidemia imponeva il blocco del movimento marittimo, e la segregazione forzata in quarantena. La schiavitù era una condizione personale che scaturiva da operazioni di scontro armato con i turchi, o dalla guerra di corsa e di rapina che i nostri portavano alle regioni dell’opposta sponda adriatica, e del Levante mediterraneo, alimentando il traffico degli schiavi. Questi ultimi, provenienti prevalentemente dai paesi balcanici, giovani, sani e di ambo i sessi, rappresentavano le prede più ambite di quelle incursioni, molte delle quali trovavano nei porti pugliesi le basi operative ed i centri di arruolamento degli equipaggi. Va detto per inciso, che la lunga e spesso tragica storia della schiavitù cristiana nelle capitali magrebine di Tunisi, Tripoli e Algeri ha degli aspetti comuni rispetto a quella mussulmana nei Paesi cristiani, ma se ne differenzia non poco per altri. Per esempio, nelle città nord africane vi era una vivace mobilità sociale della quale, in assenza di qualsiasi forma di razzismo, potevano beneficiare anche i cosiddetti rinnegati, vale a dire i prigionieri cristiani, convertiti, tra grandi feste, all’islam. Le navi che si armavano nel Viceregno per svolgere attività corsara, godevano di vere e proprie “patenti” ufficiali, rilasciate dalle locali autorità; alcune clausole riguardavano la cattura e il trattamento dei “ turchi”, che non dovevano subire danni, non certo per motivazioni umanitarie ma perché si deprezzavano. I capitani che trafficavano tale merce, o magari i loro agenti, potevano procurarsi gli schiavi anche nei mercati delle città costiere della sponda orientale adriatica. In questo caso, si evitavano i pericoli di uno scontro armato con navi ottomane, ma naturalmente bisognava mercanteggiare sulle piazze locali, dove peraltro i prezzi potevano subire oscillazioni a seconda della disponibilità del “materiale”. La condizione libera, sia da parte cristiana, che mussulmana, poteva essere riacquistata mediante il pagamento di un riscatto, che in genere corrispondeva al prezzo di acquisto; ma era questa una eventualità abbastanza remota, data la scarsa disponibilità pecuniaria del prigioniero. In realtà, intorno ai riscatti, ruotava tutto un mondo, a tratti variopinto, di mediatori, avventurieri e lestofanti che a vario titolo raccoglievano denaro da parenti e concittadini, e si recavano di persona in levante a concludere l’affare. Purtroppo, a parte le esose parcelle, spesso si dileguavano, insieme al denaro e alle speranze di quei disperati. Molto più seri ed affidabili erano le operazioni condotte da vescovi, singoli sacerdoti o frati, e da vere e proprie istituzioni ecclesiastiche, quali l’ordine dei Trinitari, dei Mercedari, o la napoletana S. Casa della Redenzione dei Cattivi (dal latino “ captivus”, prigioniero). Entrati con regolare contratto notarile nel patrimonio di chi li aveva comprati, appartenente in genere alle classi medio-alte, gli schiavi venduti sulla nostre sponde, costituivano una spesa voluttuaria, ed una sorta di “status symbol”. Considerati pertinenze della casa, soggetti di servizio domestico, sessuale, di rado agricolo, si distinguevano spesso per abnegazione e fedeltà. L’affrancazione rappresentava rispettivamente per lo schiavo e per il suo padrone una continua aspirazione e una mera facoltà, esercitata talora con effetti previsti anche per il tempo successivo alla morte dell’affrancante. Tutte le speranze svanivano, se il padrone decideva di vendere lo schiavo ad un terzo, oppure di donarlo, magari alla figlia di un amico o parente, in occasione delle sue nozze. Anche se alcuni storici hanno elaborato stime quantitative, non è facile calcolare il numero degli schiavi che per un dato periodo, poniamo la prima metà del Seicento, furono immessi dal Magreb e dal Levante nel Viceregno di Napoli. Siamo comunque nell’ordine di qualche decina di migliaia; niente di lontanamente paragonabile alla tragica tratta africana, che nel corso di due secoli, e a costo di perdite e sofferenze inenarrabili, deportò milioni di uomini dalla coste occidentali dell’Africa, a quelle dell’America centromeridionale. La schiavitù mediterranea andò progressivamente esaurendosi negli ultimi due decenni del Settecento. Gli ultimi schiavi cristiani, grazie alla mediazione inglese, furono liberati dalle Reggenze barbaresche intorno al 1816. I mussulmani venduti nel Viceregno, erano subito battezzati e si imponeva loro un nome cristiano; il sacramento, tuttavia non modificava il loro stato giuridico; potevano quindi essere tranquillamente rivenduti dai loro padroni. Stessa sorte toccava agli “scismatici”, vale a dire agli ortodossi, e, ovviamente, agli ebrei. Il prezzo oscillava mediamente, a seconda del sesso, dell’età, e della costituzione fisica, dai sessanta ai cento ducati. Per quanto riguarda Molfetta, le notizie relative alla compravendita di schiavi sono al momento molto scarse: rare in età medioevale, più numerose tra la fine del Cinquecento e il Seicento. Per motivi di spazio riportiamo soltanto la seguente: il 17 settembre 1694 Don Giuseppe Marulli di Barletta vende a Don Hieronimo Chiaveri, Governatore Generale di Molfetta, per il prezzo di 110 ducati uno schiavo chiamato Sciaban, già battezzato con il nome di Ruggero. Quest’ultimo particolare conferma quanto si è detto sopra. Il documento che segue, un atto notarile rogato in Trani il 29 aprile 1663 dal notaio Giacinto De Sario, ci dà qualche notizia sul movimento commerciale secentesco fra le due sponde adriatiche, all’interno del quale gli uomini non sono altro che una merce come un’altra. Stefano Milich, capitano di Ragusa, deve portare un carico di legname dall’isola di Curzola, in Dalmazia, a Manfredonia. Marco Costichiovich, di Perasto, cittadina vicino Cattaro, imbarcato sulla stessa nave, gli chiede di trasportare anche otto schiavi, assicurandolo che nel Viceregno non c’è impedimento per lo sbarco di tale merce e convincendolo a tralasciare Manfredonia per far scalo a Trani, Molfetta e Bari. Il perastino avrà comprato quegli infelici in qualche mercato dalmata, e cerca di rivenderli in Puglia. Può darsi che operi su ordinazione di qualche facoltosa famiglia locale o avrà magari degli intermediari sul posto; comunque, detratte le spese di trasporto, ricaverà dall’operazione un discreto guadagno. Giunti a Bari, Stefano vende il legname ma non può sbarcare gli schiavi. Stesso divieto a Molfetta e a Trani, dove la nave è costretta anche ad una quarantena di 22 giorni. Il Milich, oltre agli schiavi, tiene a bordo dell’altra merce che non riesce a smaltire; perde ogni giorno sei ducati. Intanto, da 44 giorni Marco Costichiovich continua ad assicurarlo, senza esito, che riuscirà a far sbarcare gli schiavi, e che lo risarcirà dei danni. Per sua cautela, il raguseo costringe allora il mercante di Perasto a sottoscrivere in Trani un atto notarile, nel quale sono chiaramente esposte tutte le responsabilità del mancato sbarco, della permanenza nei porti e dei derivati danni monetari. Non sappiamo per quale motivo, all’epoca del documento, fosse vietato nei porti pugliesi lo sbarco e la relativa vendita degli schiavi levantini. Può darsi che vi fossero ragioni di ordine sanitario, che cioè, essendo giunta notizia di epidemie in corso sulla sponda orientale adriatica, le competenti autorità avessero vietato lo sbarco di individui che si supponeva provenissero da zone ritenute a rischio. Oppure può essere che il governo avesse disposto un controllo più rigoroso sul traffico schiavistico, limitando i porti di sbarco. Questo per ragioni fiscali, o per esigenze militari: gli schiavi infatti erano sovente requisiti per essere impiegati come vogatori sulle galere della flotta vicereale. Protestatio pro Patron Stefano Milich Raguseo, aprile 29, domenica. 1663. Egli dice, richiede e fa intendere a voi Capitan Marco Costichiovich di Pirasto presente ed audiente come havendo esso protestante caricato il suo Vascello di tavole et altro legname da Corciola per venire n Puglia, per discaricarle in Manfredonia, esso, Capitan Marco cercò noleggiare sopra la barca di esso protestante otto schiavi, cioè sette mascoli et una femmina, turchi, ma che non voleva sbarcar in Manfredonia, et havendone esso Patron Stefano replicato che intendeva esservi impedimento sbarcar schiavi in Regno di Napoli, il detto Capitan Marco in vece l’assicurò non esservi impedimento; esso Patron Stefano con ciò restò contento di condurre detti schiavi n Trani, Molfetta e Bari, e tralasciò d’andar a dirittura in detta città di Manfredonia, dove teneva il suo disegno, col nolo di un pezzo e mezzo per testa, et essendono giunti in Bari, dove esso Patron Stefano trovò subito a smaltire detto legname, ma per detti schiavi non poté haver pratica, e dimorato ivi dui giorni, ma perché ne furono discacciati per causa di detti schiavi, fu necessitato, a preghiere da detto Capitan Marco, venire in Molfetta et indi UN MARE DI STORIE LIBRERIA Via G. Salepico, 47 Tel. 080 3971365 MOLFETTA http://ilghignolibreria.wordpress.com la tua libreria in Trani, dove similmente per la prohibitione che vi è di dar pratica a detti schiavi, ne meno ha possut’haver pratica, e dimorato in ultimo porto a far la quarantena ventiduoi giorni, e sempre in voce si è protestato contro esso Capitan Marco di tutti i denai, spese e interessi. Il quale sempre con buone parole e con permissioni di voler soddisfare detti interessi, già son hoggi 44 giorni, e non può aversi pratica di detti schiavi, et il comparente et protestante è stato e sta trattenuto con sua barca e buona parte della mercantia in detto porto di Trani, con danno spesa et interesse notabilissimo, che di lucro cessante e danno emergente importano ducati sei il giorno, il tutto per colpa e difetto di esso Capitan Marco, c’ha condotto detti schiavi, e assicurato esso Patron Stefano in Corciola di non esservi impedimento. Anzi, arrivato in Bari vedendo detto impedimento, esso protestante volse ritornar in Corciola con detti schiavi, et esso Capitan Marco l’ha trattenuti con speranza e pro missione d’haver la prattica per detti schiavi, e di volerli pagare gli interessi, che però il sottoscritto se ne protesta di nuovo contra esso Capitan Marco, non una, due e tre volte, ma quante volte sarà necessario, di detto interesse a doc. sei il giorno per l’impedimento di detta barca per causa di detti schiavi.