La fine di un re senza corona
Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus (Resta, la rosa primigenia, con il suo nome, noi abbiamo solo nudi nomi), prendiamo a prestito la locuzione latina resa celebre da Umberto Eco nella conclusione del romanzo “Il nome della Rosa”.
La frase, un po’ corruzione di un verso del “Contemptu mundi” di Bernardo di Cluny, monaco del XII secolo, indica la caducità di ogni cosa: di imperi, vite, titoli, rimangono solo i nomi. Non ci resta che il nome. Potrebbe adattarsi alla situazione di Molfetta e in particolare a quella dell’ex sindaco Tommaso Minervini, rimasto prigioniero del suo potere e caduto per mano dei suoi stessi sostenitori.
Dopo aver subito l’arresto e la sospensione dalla carica, Tommaso, ha scelto di resistere caparbiamente, rifiutando di dimettersi, preferendo guidare dall’esterno una giunta zoppa, fatta di uomini che per non perdere la poltrona e lo stipendio si erano abbarbicati alle poltrone, fino a quando uno di loro, dal fiuto politico efficace, ha preferito chiudere la partita, per evitare di essere travolto dal crollo inevitabile dell’amministrazione “ciambotto”.
Quanto questa scelta sia dovuta a responsabilità politica e quanto alla capacità trasformistica degli Amato, lo dirà la storia dei prossimi mesi, quando i personaggi delle liste civiche si posizioneranno in vista delle elezioni amministrative di primavera.
Amato è il simbolo di un animale politico non nella nobile accezione aristotelica, ma in quella più prosaica, di politico furbo, pronto a cogliere l’evoluzione degli eventi per riposizionarsi e restare sempre a galla e in sella, quali che siano le coalizioni in campo. Una sorta corsa in soccorso del vincitore coniata da Bruno Barilli e ripresa con maggiore successo da Ennio Flaiano. Un camaleontismo mascherato da responsabilità civica, di un civismo che ha fatto male alla città, perché legato non ai suoi problemi e bisogni, ma a personaggi alla testa di liste civiche, senza retroterra politico, non portatori di reali interessi politici generali. I detentori di pacchetti elettorali spostano i voti dove è al momento più conveniente, senza criteri ideologici o politici, ma di gestione politica della città. Insomma, pura espressione di potere.
Tommaso Minervini nel suo ostinato rifiuto di dimettersi, ha portato la città ad una gestione commissariale non scelta in vista di un rinnovamento, ma subita per il crollo inevitabile di un’amministrazione acefala, teleguidata dall’esterno, in barba ad ogni principio di etica politica.
E la caduta è stata rovinosa: alla fine il re senza corona è stato abbandonato da tutti, pure dai fedelissimi, che non lo hanno nemmeno ricordato nei saluti di commiato all’arrivo del commissario straordinario nominato dal prefetto dopo lo scioglimento del consiglio comunale.
Si è consumato così il dramma shakesperiano di un re circondato da pochi cortigiani improbabili, pronti anch’essi a riposizionarsi in una sorta di gattopardismo senza fine.
Un uomo solo al tramonto, scaciato e senza più meta, prigioniero del passato, che paga il prezzo della sua incapacità di mediazione fra ricatti politici e richieste improponibili. Un ostaggio delle sue liste civiche, perché privo di quei voti, anche di opinione, che fanno la differenza, chiuso nella celebrazione delle sue res gestae, attraverso l’ufficio propaganda e le sue apparizione pubbliche, amplificando la portata dei fatti attraverso la loro narrabilità. A prevalere è stata non più la qualità delle opere e quella degli interventi, ma la loro narrabilità, sull’esempio meloniano nazionale. La narrazione come metodo di governo, di esperienza postabile sui social in un improbabile empireo dantesco delle opere realizzate e della loro utilità pubblica, più rispondente all’immagine che ai reali bisogni di una comunità, alla quale si dà in pasto qualche illusorio battiti live, secondo l’antica espressione di Giovenale del panem et circenses nell’antica Roma imperiale.
Chi costruisce la narrazione, finisce poi per credere alla finzione che ha inventato pensando che l’immagine abbia maggiore capacità di catturare o sedurre e attrarre più della sostanza. Si chiama imagograzia (Guerino Bovalino, studioso della comunicazione).
Cosa resta di questa naufragata esperienza di governo? Edilizia selvaggia, cementificazione e speculazione, aumento della criminalità, malgoverno sfociato in interventi giudiziari e un’illegalità diffusa reale non percepita. Anche il problema sicurezza si inquadra in questo clima generato da un narcisismo politico che ha prodotto più la crescita di interessi privati che pubblici. Insomma, la esibita competenza ed esperienza si è rivelata un bluff, come abbiamo anche scritto in passato. E il tempo ci ha dato ragione.
Prigioniero del passato e di una vecchia politica anni Sessanta, con la sicurezza esibita, la preferenza del tifo alla stima, il continuo paragonarsi al suo maestro Finocchiaro (che lo aveva rinnegato), perfino negli slogan quasi plagiati di “Minervini è Molfetta” o presuntuosi di “Molfetta positiva”, alla fine si sono rivelati controproducenti con un potente effetto boomerang.
Il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844−1900) diceva che l’arte più alta che un essere umano può esercitare è quella di saper tramontare al momento giusto. «L’arte di sapere tramontare – ha ricordato lo psicanalista Massimo Recalcati su Repubblica - dovrebbe guidare un leader degno di questo nome sin dal giorno del suo insediamento. Circondarsi non dai mediocri ma dai migliori, guardare con cura alle nuove generazioni, ai loro talenti, affidare a loro compiti e responsabilità, attivare un principio di delega diffuso, non accentrare il potere sulla propria persona».
Occorre saper uscire di scena al momento giusto, i conti si fanno sempre alla fine: questo è mancato a Tommaso Minervini, la dignità delle dimissioni per far fronte a una vicenda giudiziaria che ci auguriamo si concluda positivamente, ma che ha minato l’immagine di un’amministrazione già discussa a livello di opinione pubblica per tante scelte inopportune e non condivisibili, fatte contro la città e senza il coinvolgimento dei cittadini, dall’orribile rifacimento del quartiere Madonna dei Martiri al mostruoso progetto di allargamento del lungomare con la colmata dei rifiuti del dragaggio del porto, solo per citarne alcuni.
Le elezioni regionali hanno fatto poi crollare le residue resistenze di improbabili sostenitori, pronti all’ennesimo trasformismo e a prendere le distanze dal perdente Tommaso, sempre più solo, isolato e vittima dei suoi errori. Ci dispiace umanamente, ma quando la politica segue una narrazione lontana dalla realtà e dai bisogni, i risultati sono questi. E allontanano la gente sempre più dalla politica e dal voto: è quello che è avvenuto a Molfetta e la crescita dell’astensionismo doveva suonare come campanello di allarme del distacco della gente.
Ma l’egolatria sconfinata e l’attaccamento al potere hanno avuto la prevalenza sulla realtà. E ora si pagano le conseguenze e le paga anche la città smarrita e alla ricerca di un’alternativa credibile, fuori dei trasformismi propri degli Amato e dei Tammacco, possibilità che comincia faticosamente a crescere, ma che ha ancora molta strada da fare.
Felice de Sanctis
Editoriale rivista mensile “Quindici” 11/25
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Autore: Felice de Sanctis