Gli Affondi di Felice de Sanctis costituiscono non solo una piacevole lettura che consente di riandare con la memoria agilmente ai fatti del passato prossimo, quasi in una sorta di amarcord, di gioco che riporta a ricordare il “come eravamo”, chi c'era e chi non c'era ma offrono l'occasione per fare un bilancio. Un bilancio che è in altre parole un confronto fra questo passato prossimo che “non passa” perché forse ancora permane e questo presente che altro non è se non l'effetto, il prodotto di scelte, azioni, processi, decisioni messe in campo proprio nel periodo preso in esame nel libro. Gli scritti editoriali oltre ad avere valore di testimonianza rappresentano un contributo civile all'analisi della città, dei suoi pregi ma anche dei suoi limiti, dei suoi difetti e delle sue storture. Ci sono dei fi li rossi sotto traccia che parlano e si sforzano di analizzare aspetti più volte al centro dell'attenzione della comunità molfettese, anche negli eventi recenti. Stiamo parlando del tema delle degenerazioni della vita politica, delle scelte politiche rilevanti fatte da personaggi spesso sganciati da partiti e solidi gruppi sociali di riferimento, i metodi dubbi di raccolta di consenso in occasione delle campagne elettorali, l'opacità di processi decisionali con relativo restringimento delle sedi di partecipazione, le commistioni fra politica, amministrazione e burocrazia. Libri come questo impediscono di soffermarsi ai “superfi ciali” aspetti giudiziari delle questioni suddette, con relativo e immancabile corredo scandalistico e gossipparo ormai costume di certa stampa nazionale e non solo. Raccogliere questi editoriali è un'operazione intelligente che offre la possibilità e costringe a cimentarsi – per politici e cittadini che sentano il dovere di farlo – con una rifl essione profonda sui malesseri della comunità. Della città di Molfetta spesso alle prese con drammi rinvenienti da vicende giudiziarie collegate all'ambito del governo del territorio, all'urbanistica alla socialità. Drammi che fanno vittime, che infrangono sogni di persone, anni di sacrifi cio. Drammi che hanno come vittima spesso non riconosciuta la dignità delle persone e di una città, di quello che un tempo veniva chiamato “interesse genrale”. A partire da questa occasione dovremmo cercare di capire il dramma che Molfetta sta vivendo. Cercare di capire quali sono le vittime. E dunque di capire anche chi sono i colpevoli. Si tratta di produrre un'analisi politico-culturale, uno sforzo collettivo che responsabilmente sappia e voglia vedere i bubboni che stanno emergendo e che si stanno rivelando a macchia d'olio, in quella che per alcuni è “la più bella città del Mezzogiorno”. Viviamo in una città in cui persone preposte ad attività di controllo e repressione di fenomeni abusivi vengono fatti oggetto di “attenzioni particolari” senza che questo provochi un'immediata e sdegnata reazione, al di là delle istituzioni e dei soliti noti soggetti politici, della città tutta. Viviamo in una città in cui si producono ciclicamente, e con frequenza sempre maggiore, abusi legati all'edilizia (dagli scandali delle cooperative a cavallo degli anni Ottanta-Novanta alla vicenda delle B4, passando per il caso “straordinario” della Palazzine di Via Aldo Fontana), speculazioni urbanistiche che signifi cano grossi affari per pochi percettori di rendita e drammi familiari per cittadini che lavorano un'intera vita. Viviamo in una città in cui non pochi oggi – politici, giornalisti, liberi pensatori – recitano la parte del saggio padre di famiglia che raccomanda di pensare ai più danneggiati, le vittime attuali, di non fare polemiche e non puntano mai il dito contro chi ha contribuito a produrre lo stato presente delle cose. Insomma, si approfi tta dei drammi reali delle persone per coprire in questo frastuono le responsabilità politiche di chi ha avallato uno sviluppo distorto e spregiudicato dell'edilizia a Molfetta, uno sviluppo che ha sfregiato la bellezza e le risorse del territorio e che ha impedito altre forme di progresso economico per la nostra città. Uno sviluppo drogato di cui siamo vittime tutti, chi più, chi meno; perché tutti quanti ci ritroviamo a vivere in una città la cui qualità della vita – urbana, ambientale, morale – peggiora sensibilmente. La divisione principale oggi non è tanto fra partiti e schieramenti ma fra chi rimuove questa realtà dura, pesante, negativa per propagandarne un'altra fantastica, positiva ma irreale, che fa comodo a sé, ai suoi affari e ai suoi interessi particolari e chi invece guarda in faccia questa realtà, perché solo affrontandola nelle sue piaghe e cimentandosi con le sue contraddizioni, potrà rimettere insieme le energie migliori e positive. Viviamo in una città in cui chi si sforza di immaginare un'altra Molfetta e critica, denuncia, fa opposizione nei confronti di questo sistema, venuto su poggiandosi anche su debolezze e compiacenze del sistema politico e burocratico, contribuendo così a uno scadimento della partecipazione civile e del senso civico, viene etichettato come idealista, utopista e quel che è peggio, a volte non solo da parte di attori politici e sociali ma anche dagli stessi cittadini. Viviamo infatti in una città in cui il grado di distorsione non riguarda solo la politica ma il costume civile dei cittadini, per questo sarebbe troppo riduttivo, e sbagliato sul piano dell'analisi, affermare oggi che la colpa è tutta dei politici. Certo la parte politica oggi al governo ha la grande responsabilità di non riconoscere che il tessuto socio-economico di Molfetta è malato, che i legami della comunità sono duramente usurati, mentre preferisce cantare magnifi che lodi alla dinamicità di una Molfetta che non c'è, che arranca. La rifl essioni pluriennali del direttore di Quindici consentono di delineare ed affermare un quadro in cui la politica è in crisi perché la città è in crisi, perché essa ha smarrito una sua direzione di marcia, perché non ha una sua missione. Non si tratta di produrre un discorso moralistico. Molfetta ha perso la sua vocazione perché oramai da un decennio e più la sua dinamica socio-economica è legata all'edilizia e alla rapina del territorio in nome di uno sviluppo che premia la rendita parassitaria di chi già è ricco e non sa intraprendere economicamente, uno sviluppo che penalizza le risorse del lavoro, di chi produce, di chi ha inventiva, di chi rischia, di chi spesso emigra e porta altrove il suo konw-how. Una dinamica socio-economica non autocentrata, raffi gurabile plasticamente nella crescita di una città artifi ciale all'esterno (il Fashion District) e nel deperimento, nell'abbrutimento della città storica, tradizionale, delle sue fonti di economia, dei legami sociali e delle relazioni virtuose all'interno. Qualcuno dirà che ormai il ciclo dell'espansione edilizia volge termine, in parte è vero ma la storia recente dimostra che non siamo al riparo da scempi urbanistici, che magari c'è ancora dell'altro da sventrare o da “riqualifi care” selvaggiamente, c'è ancora forse qualche spazio vuoto da riempire, da colmare come è nella fi losofi a di qualche nuovo dirigente comunale. Ma quel che è grave – volendo rimanere sul piano degli scenari di sviluppo e non su quello dei giudizi morali – e che non ci si rende conto che l'opzione di sviluppo legata all'ampliamento del porto si confi gura come la degna sostituta della grande fase del boom edilzio-speculativo. Come questa era dettata dagli interessi particolari, di una parte della città, del partito del mattone e dai suoi referenti politici, e ha limitato la sviluppo di altri assi dell'economia locale, così il porto oggi si confi gura come una grande megaopera che darà benessere alla città. Proprio come lo sviluppo edilizio avrebbe dovuto dare una casa a ogni molfettese a prezzi accessibili, addirittura favorire il ritorno di quelli emigrati nei comuni viciniori, quasi quasi sarebbero tornati anche gli emigrati d'oltreoceano… L'assunto di fede è che il porto genererà progresso, sviluppo. Ma sulla base di quale calcolo costibenefi ci? In nome di quale visione della città? A vantaggio di quali gruppi economici? Quale sviluppo travolgente hanno conosciuto le nostre zone industriali e artigianali tale da giustifi care questa opera per le loro traboccanti produzioni da esportazione? O per caso il porto s'ha da fare per alimentare ancora una volta quei gruppi economici parassitari che si attendono appalti e subappalti per utilizzare soldi pubblici e rimpiazzare così la progressiva fi ne del ciclo dell'edilizia? Ancora una volta, e lo diciamo oggi prima dell'inizio dei lavori di un'opera che rischia seriamente di essere un'incompiuta come tante ce ne sono state nel Meridione, quest'idea di sviluppo per Molfetta, su cui puntano l'attuale compagine di governo e quella parte di mondo economico decadente e parassitario che in esso ha il suo interlocutore politico privilegiato, è un'idea artifi ciosa, esterna alle risorse e alle potenzialità del territorio, svantaggiata rispetto agli investimenti e alle programmazioni che altre città – come Bari e Barletta – hanno da tempo fatto sul loro porto. Sembra quasi che essendoci i soldi pubblici, questi fi nanziamenti, non si possa rinunciare e che quindi debba farsi per forza questo porto, perché magari serve ad alimentare mondi economici che già da decenni campano grazie allo sfruttamento del territorio. Spolpato o fi nito di razziare il territorio, ora si apre questa interessante avventura dei lavori per il porto con tutto l'indotto degli appalti, delle prospettive di crescita per la città e di posti di lavoro che saranno presumibilmente il motivo dominante delle prossime campagne elettorali per raccogliere consensi facili, consensi di quei cittadini in diffi coltà. Quei cittadini utilizzati dai “padroni del vapore” per rafforzare la loro presa sulla città, quei cittadini che quando si ritrovano nel dramma di una casa persa o di una vita senza un lavoro stabile, non precario allora, e solo nell'emergenza, diventano protagonisti con cui solidarizzare. Una solidarietà strumentale che si costruisce ad arte attorno a loro e serve ad oscurare le responsabilità dei veri colpevoli politici ed economici e anzi contribuisce ad aumentarne l'importanza agli occhi delle vittime. Questi responsabili hanno mietuto vittime, non solo fra i cittadini individualmente danneggiati ma anche fra tutti quei cittadini che sperano in una Molfetta migliore, davvero più viva e dinamica, non più parassitaria ma animata da partecipazione e senso civico di appartenenza a un destino comune. In nome di tutte queste vittime, in nome della vittima più grande che è la città di Molfetta, la sua dignità e il suo corpo feriti, forse il lavoro di De Sanctis ritorna ancora più utile e può rappresentare un invito a proseguire nella discussione sui veri nodi del passato e del futuro della città. Una discussione che partendo da individui e gruppi consapevoli sappia allargarsi fi no ad acquistare una dimensione sociale tale da invertire quanto prima la traiettoria di crisi strutturale e di valori su cui viaggia la nostra città, spesso all'insaputa della stragrande maggioranza dei suoi cittadini.