Una città senza amore, egoista, ipocrita, senza coraggio, senza speranza. Molfetta, la nostra città appare a volte senza storia, mostra sempre il suo volto peggiore, non riesce a condividere, ma solo a dividere, dalla politica all’informazione, tutto sotto il segno dell’invidia. L’un contro l’altro armati alla ricerca dell’inutile primato e della medaglia di cartone, del trofeo della verità in un mare di menzogne, dove si semina odio a piene mani e l’altro viene visto come un nemico da distruggere e un debole da schiacciare. Forse è impietosa questa immagine di Molfetta, che non corrisponde alla sua vera natura. Ma è quella che appare: la città degli scandali e del degrado. «Questa città splendida e altera, generosa e contraddittoria. Che discrimina, che rifiuta, che non si scompone. Questa città dalla delega facile. Che pretende tutto dalle istituzioni…», lo diceva già oltre 25 anni fa il nostro amato don Tonino Bello, vescovo in odore di santità, ma uomo autentico nel senso pieno del termine, che condannava la guerra e predicava la pace. Soprattutto fra gli uomini, soprattutto fra la gente della sua comunità, che vedeva divisa e altezzosa, piena di arroganza e di odio verso gli altri, incapace di accogliere l’altro e collaborare per il bene comune. E coloro che dovrebbero essere di esempio ai cittadini, talvolta finiscono per mostrare il volto peggiore di sé e della città. La politica, arte nobile che nella concezione di Aristotele era l’amministrazione della “polis” alla quale tutti partecipavano per il bene dell’intera comunità, è stata ridotta in Italia a strumento di prevaricazione, da dispensatrice di giustizia sociale a strumento di corruzione, per la presenza e prevalenza di personaggi che vedono nella politica la possibilità di perseguire interessi personali, sempre più spesso come ci raccontano le cronache nazionali, con intrecci spesso illegali, a danno della comunità, ma a vantaggio del proprio arricchimento e di quello degli «amici», meglio dire «complici» nel perseguimento degli affari. Da questa degenerazione della politica, nasce l’antipolitica, peggiore della prima, i cui effetti nefasti ce li insegna la storia, che però non ha scolari, come ammoniva Cicerone. La democrazia, quella vera, richiede che ci sia un governo che amministri a nome dell’intera collettività, anche di quella minoranza che non lo ha eletto e di un’opposizione che controlli attraverso la critica agli atti amministrativi e con l’offerta di contributi utili al bene comune. Ma il berlusconismo di questi anni ci ha abituato a una politica arrogante che disprezza le regole, che viola le leggi o le modella ad personam, che tollera l’illegalità diffusa come è avvenuto a Molfetta, e offre agli italiani un modello di società dove l’arricchimento e il denaro rappresentano gli unici valori, per raggiungere i quali si è disposti anche a delinquere. E gli arresti di questi giorni per l’Expo 2015 di Milano sono un’ulteriore conferma. Da questa indagine è saltata fuori ancora una volta un’immagine negativa di Molfetta, sempre per lo scandalo del porto, di cui si sta occupando la Procura di Trani, che ha chiesto ai Pm di Milano l’invio degli atti dell’inchiesta Expo in cui si parla dell’appalto per la costruzione della diga fornaea. In un’intercettazione ambientale emersa nelle cronache stampa dell’inchiesta, infatti, il costruttore Enrico Maltauro ricostruisce in questo modo la storia dell’appalto del porto di Molfetta: «Me la ricordo bene quella gara lì, cioè una roba... Avevano chiesto in fase di prequalifica una macchina, una draga, la disponibilità, perciò anche in affitto, che c’è ne una solo una in tutto il bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente... Quelle cose esagerate, cioè scrivere “nome, cognome, indirizzo”... Cioè sono robe fatte... “dato che ho stravinto, no? allora ci metto anche la spada come Brenno”. Lì è esagerato...». Di fronte a queste affermazioni sulle quali indagherà la magistratura, si resta senza parole. Siamo rimasti sconcertati, anche se ormai, dopo quasi 50 anni di mestiere, non ci meravigliamo più di niente: stavamo scrivendo questo editoriale, cercando di sviluppare il concetto che non si può essere continuamente in guerra e che è necessario almeno un armistizio. Ma per farlo occorre un accordo fra belligeranti. Insomma, per farlo, occorre essere in due. Ma se una parte, il centrodestra, rifiuta di metter da parte le armi, anzi continua nell’ostinata battaglia contro tutto e tutti: muoia Sansone con tutti i filistei, fa danno a se stessi, ma anche alla città. L’altra notizia che ci ha raggiunto mentre scrivevamo, riguarda il ricorso al Consiglio di Stato da parte di esponenti del centrodestra, che non si sono dati per vinti per la sconfitta e vogliono abbattere l’amministrazione comunale legalmente eletta, attraverso la carta bollata, cercando una rivincita in tribunale, con spreco di denaro pubblico. E, per continuare in questa ostinata battaglia perduta (il Consiglio di Stato ha già bocciato un ricorso simile che riguardava il Comune di Valenzano, ribaltando la sentenza del Tar), gli uomini del centrodestra, incapaci di dialogare con chi non la pensa come loro (grande esempio di democrazia!), non esitano a far spendere altri soldi ai cittadini, costringendo l’amministrazione comunale a nominare altri avvocati per difendersi in una causa già scontata. Ma questo attaccamento alle poltrone e al potere come si spiega? Ci sono troppi interessi in gioco, per lasciare la palla agli altri? E così, nella peggiore tradizione della destra fascista, non si esita, con volgari e diffamatori manifesti, di cui si sta occupando la Procura di Trani, a infangare cose e soprattutto persone, come ci ha abituato il centrodestra italiano e molfettese: che si chiami Pdl o Forza Italia, la sostanza non cambia. E il riferimento è all’ormai famoso manifesto del peperoncino sulle “pene di Paola”, che ci ha fatto ancora una volta vergognare a livello nazionale, essendo stato ripreso da tutti i media italiani. E così continua questa campagna elettorale infinita: l’unica cosa che sanno fare questi politici, una classe dirigente che si sta confermando di infimo livello, capace solo di fare opposizione non sui problemi reali, provocati dalla loro cattiva gestione degli ultimi 10 anni, ma sull’asfalto davanti al Duomo, su qualche cassonetto sporco e su qualche buca nelle strade cittadine. E la politica del peperoncino, tra l’altro poco originale, priva di fantasia e creatività, al punto da copiare idee da altri), alla fine si rivela un boomerang per il povero Ninnì Camporeale, candidato sindaco sconfitto non rassegnato e per i suoi compagni di cordata, ormai isolati e sconfessati perfino dal vertice nazionale di Forza Italia, che ha espresso solidarietà alla Natalicchio. Pippo Civati, esponente nazionale del Pd, ha bollato il manifesto con l’aggettivo SCHIFOSI, ma forse sarebbe stato meglio scrivere «POVERACCI». Ma torniamo alla nostra cara Molfetta il cui sviluppo e la cui crescita ci sta più a cuore e costituisce l’unico motivo dell’esistenza di Quindici, giornale che da 20 anni rappresenta quella che una volta veniva chiamata «società civile». Non si può proseguire in questa campagna elettorale continua, unico modo per il centrodestra di giustificare la propria esistenza. Così si fa male alla città, dividendola e impedendole di crescere. Ecco, proprio una città senza amore.