Un ricordo dell’artista Salvatore Salvemini a 15 anni dalla morte
In questo 2021 ricorrono i quindici anni della morte di Salvatore Salvemini, l’artista molfettese scomparso ottantunenne nel dicembre del 2006. Quindici anni in cui non sono mancati gli omaggi nella nostra città e altrove, grazie a studiosi, curatori di mostre, galleristi (Pietro Marino, Gaetano Mongelli, Gino Apicella fra gli altri). Tributi che hanno contribuito a inquadrare il percorso di Salvemini nel contesto di una modernizzazione del canone figurativo, soprattutto negli anni 1960-70 dei fermenti politici e culturali culminati nel Sessantotto, senza dimenticare, anzi, rileggendo in chiave inedita, le radici pugliesi e molfettesi in particolare. Stagioni feconde che prendono corpo, materico e radicale, in un magnifico trittico di grandi tele salveminiane dedicate alla Contestazione (1968) con corpi martoriati, volti fuggitivi, elmetti minacciosi, la ruota di una jeep, ma anche un’ala angelica e un indefinibile interno domestico che aprono alla speranza. Un’opera emblematica. Quello di Salvemini è un percorso coerente, sebbene personalissimo, nello storico solco degli artisti di Molfetta in fervida connessione con Napoli innanzitutto e quindi con Roma o Parigi, dal settecentesco Corrado Giaquinto cui è intitolata la Pinacoteca metropolitana barese, fino alla “tradizione del nuovo”, come sarebbe stata definita, dei novecentisti Cosmo Damiano Allegretta, Franco d’Ingeo, Leonardo Minervini… Dopo un’esplorazione pugnace e generosa del lascito delle avanguardie storiche e l’adesione alle neoavanguardie negli anni che precedono il boom (neorealismo, neocubismo, rinnovato espressionismo), Salvemini vira verso uno scandaglio delle immagini ben oltre il facile lirismo e l’arcadia dei passaggi meridionali. Un’inquietudine creativa, la sua, che prende corpo e trova casa nel gruppo denominato “Nuova Puglia”, del quale l’artista molfettese è forse l’esponente più in vista e di certo il più consapevole insieme a Luigi Guerricchio. “Salvemini in particolare – scrisse Pietro Marino sulla Gazzetta del Mezzogiorno nel dicembre 2006 – scavalcò rapidamente gli esordi di maniera neorealista. Guardò a modelli europei per dire di sofferenze e tensioni dell’uomo contemporaneo, anche con arditi tagli e ripetizioni di immagini, di sentore cinematografico. Negli anni ‘70, attento a biomorfismi di aspro taglio surreale e alla dissoluzione informale dell’immagine, inventò le scarnite apparizioni delle Radici”. Dopo i fermenti neorealistici apprezzati e sostenuti in primis da Renato Guttuso che sempre ne lodò il talento e lo stile, le soluzioni grafiche e pittoriche di Salvemini delineano un habitat quasi metafisico: le “radici” sono “relitti” derivati da configurazioni e metamorfosi, fossili o vegetali, segni e graffi, talora con innesti di simulacri come i fogli di giornali (un po’ alla Mimmo Rotella). Un visionario, Salvemini, che nel gettare lo sguardo oltre l’ostacolo della realtà dell’amatissimo Sud e delle stesse ideologie in auge, cercava risposte alla propria “crisi di certezza”, ovvero “allo smarrimento di fronte al senso delle cose”, come l’artista scrive nel catalogo di una rassegna agli inizi degli anni Settanta alla Pinacoteca di Bari organizzata con la modalità allora in auge della autogestione. Mentre il mondo dell’arte è in fiamme, Salvemini dubita del fuoco di quelle rivolte e anticipa suo malgrado i tormenti della crisi delle ideologie e per certi versi la post-modernità. Così, mentre si impegnava nella sua Molfetta in battaglie politiche e culturali per lo più oggi dimenticate (purtroppo), coglieva successi in esposizioni prestigiose come la Quadriennale di Roma e il premio nazionale “F. P. Michetti” di Francavilla a Mare, che, nato con un focus sul paesaggio nel 1947, nel corso del tempo avrebbe lanciato nomi quali Sassu, Cantatore, Ceroli, fino a Burri, Capogrossi, D’Orazio, Fontana, Turcato, Vedova, Kounellis… Morto nel silenzio, un silenzio abbracciato e quasi scelto in polemica con i clamori di un mondo dell’arte sempre più fasullo e mercantile, Salvemini meriterebbe oggi una retrospettiva il più possibile completa nella sua città. E magari Molfetta potrebbe provare ad acquisire al patrimonio pubblico talune sue opere disponibili sul mercato o fra i collezionisti. Si parla tanto di memoria come premessa necessaria del futuro di una comunità: ecco un modo per onorare con i fatti questa ambizione, nel ricordo dell’appartato e coraggioso Salvatore Salvemini, artista autentico del nostro Novecento. C. T.