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Un redditest a colazione un redditometro per pranzo e uno spesometro a cena: la tavola nel Belpaese
15 febbraio 2013

In un clima già acceso dalla campagna elettorale, nella morsa del ciclone è stato catapultato lo strumento di accertamento dei redditi delle persone fisiche, il redditometro. Si stanno oramai sprecando fiumi d’inchiostro sulla carta stampata e cascate di megabyte sul web. Anzi, imperversano i commenti colorati di confusi e preoccupati cittadini e gli approfondimenti lampo televisivi che rifilano pillole di notizie a tutte le ore (magari sorseggiando un caffè in una confusa mattina durante la classica colazione all’italiana). Ecco perché sarebbe opportuno fare un po’ di chiarezza. Il sistema tributario italiano è informato sul sistema dell’autotassazione: è il contribuente che, mediante la dichiarazione dei redditi, rende noto al Fisco il suo reddito, ne determina l’eventuale imposta da pagare e provvede poi al relativo versamento. Tra il Fisco e il contribuente s’instaura un vero e proprio rapporto di fiducia, ma, come nella vita quotidiana, questo rapporto può essere “messo alla prova” mediante una serie di controlli. È così che dal 1932 (confermato dalla riforma tributaria del 1973) sono state introdotte delle leggi finalizzate ad accertare il comportamento dei contribuenti, sino all’introduzione del redditometro nel 1991. Perciò, il redditometro ha circa 22 anni, anche se solo al compimento del 19esimo anno di età ha raggiunto la sospirata “maturità”, quindi solo nel 2010 perché adeguato al contesto socioeconomico della popolazione. Questo ha consentito una maggiore efficienza dello strumento e maggiori garanzie per il contribuente in un’ottica di ampliamento della sua efficacia per contrastare fenomeni di evasione fiscale. In buona sostanza, questo strumento consente all’Amministrazione finanziaria di rideterminare il reddito delle persone fisiche sulla base della capacità di spesa del contribuente, prendendo in considerazione un variegato paniere composto da oltre 100 elementi induttivi di spesa, suddiviso in dieci macroclassi, che considerano l’analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati per nucleo familiare e area geografica. Dal controllo incrociato dei dati in possesso dell’amministrazione, mediante l’anagrafe tributaria o altre informazioni, sarà possibile valutare la coerenza tra uscite ed entrate del soggetto. Per l’accertamento redditometrico (diverso dallo spesometro o accertamento sintetico puro) si valuta ciascun elemento induttivo di spesa in possesso del contribuente sottoposto a controllo, moltiplicato per determinati coefficienti e ridotto di eventuali “abbattimenti”. Il risultato ottenuto (al netto di oneri deducibili) è il reddito netto accertato. Quest’ultimo andrà confrontato con il reddito netto dichiarato dal contribuente. Se dal confronto tra reddito accertato e reddito dichiarato dovesse emergere uno scostamento rilevante (superiore al 20% di quanto dichiarato anche per un solo anno, stante la franchigia di 12mila euro) il contribuente dovrà essere obbligatoriamente convocato ad un colloquio con l’Amministrazione finanziaria, per dare spiegazioni e/o giustificazioni sulla propria situazione. Solo nel caso in cui tale colloquio fosse improduttivo di giustificazioni valide per il Fisco, potrà scattare il fatidico avviso di accertamento contro cui esistono una serie di rimedi utili anche a “limare” la pretesa tributaria accertata dall’amministrazione finanziaria, pur sempre nel rispetto della legge. Ebbene, all’alba del ribattezzato redditometro 2.0 il panico è ingiustificato. Il nuovo redditometro approfondirà i controlli solo dello 0,1% rispetto ad oggi, focalizzando l’attenzione solo sui grandi evasori, i “parassiti sociali” (in quanto, come chiarito da fonti ufficiali dell’Agenzia delle Entrate, non saranno sottoposti a controlli coloro che percepiscono la pensione o lo stipendio di lavoratore dipendente come unica fonte di reddito). In tempo di crisi, insomma, anche gli sforzi per ripristinare l’equità sociale finiscono con il divenire un boomerang che mortifica psicologicamente la già risicata propensione agli acquisti dei cittadini italiani. In questo clima acceso, la colpa ricade sul redditest, l’ultima diavoleria dell’Agenzia delle Entrate, sperimentato quasi sicuramente dal 90% della popolazione onesta che si è allarmata quando, dopo aver utilizzato il software, ha visto comparire bagliori di luce rossa sullo schermo del proprio pc per indicare la non congruità tra spese effettuate e reddito dichiarato. In realtà, questo strumento di autodiagnosi fiscale è stato introdotto e pensato per stimolare il cittadino alla fedeltà fiscale, perché esamina parametri di spesa differenti per valori e tipologie rispetto al redditometro. Quindi, è del tutto inefficace ai fini di legge. Nell’ottica allarmistica del paradigma psicologico della crisi, complice stampa e tv impazziti, si è entrati nel vorticoso circuito del panico, complice forse anche la chiacchierata efficacia retroattiva del redditometro (sono sottoposti a controllo i redditi del 2009 dichiarati nel 2010, quando già era in vigore questa modalità di accertamento, sebbene con alcune differenze) e la paventata “probatio diabolica” che incombe sul contribuente come una spada di Damocle (anche su questo punto nulla di nuovo rispetto al passato, anzi la Cassazione sta intervenendo con temperamenti già da tempo). Il tempo della caccia alle streghe e agli stregoni è oramai abbondantemente passato. Nessuno perseguiterà il contribuente se ha sostenuto una spesa onerosa, magari a causa del cane che è stato poco bene. È opportuno abbandonare il clima della caccia ai consumi e assumiamo un atteggiamento più positivo. Se si auspica il cambiamento dell’Italia verso gli orizzonti della legalità, è bene che i furbetti non la facciano franca. ©

Autore: Rebecca Amato
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