Una giovane e talentuosa molfettese, la 27enne Dalila Palumbo, e i suoi due cuori pulsanti, la sfera umana e quella professionale, si sono aggiudicati il “Premio Internazionale Evento Donna”, destinato a riconoscere la forza delle donne per una rinascita culturale, sociale, economica ed ecosolidale dell’universo femminile ai tempi del covid-19. Sarta e fashion designer nota anche a livello internazionale, fondatrice del brand “Isabel Pabo”, un marchio made in Puglia, Dalila Palumbo ha rilasciato a “Quindici” un’intervista in cui ripercorre il proprio percorso nel settore della moda. Tenacia, passione, spirito di sacrificio. Amore per il prossimo, feeling con i tessuti, dedizione verso i clienti. Ma soprattutto un valore aggiunto: quel tocco di umiltà che le ha permesso di fare tanta strada. Cosa significa, per lei, aver ricevuto il Premio Internazionale Evento Donna? «Come ogni riconoscimento ricevuto inaspettatamente, ne sono contentissima. È un onore immenso, per me, aver ricevuto un premio come questo, che ho accolto con una felicità semplice e genuina. Purtroppo, causa emergenza, la data per il ritiro del premio è stata rinviata: si parla della consegna per l’8 marzo 2021, ma attendiamo l’ufficialità in base all’evoluzione dell’epidemia». Vuole parlarci del percorso che l’ha portata ad ottenere questo riconoscimento? «Non c’è un percorso vero e proprio dietro il premio che ho ricevuto, non era prevista la partecipazione ad un concorso. Il giorno in cui ricorre la festa dei nonni ho ricevuto una chiamata in cui mi hanno comunicato che rientravo tra le donne premiate all’Evento Donna. Inutile dire quanto fossi emozionata. Il premio è conferito a tutte quelle donne di spicco che si distinguono da un punto di vista etico e sociale. Nel mio caso il riconoscimento si lega alla produzione di mascherine durante l’emergenza sanitaria da Covid-19. Si tratta di un impegno che ho compiuto quotidianamente con sincero affetto e con sincera premura. Un gesto che mi ha permesso di tendere la mano verso il prossimo in seguito ad un lutto familiare che mi ha segnata e, soprattutto, che mi ha permesso di entrare nella vita di tante persone, con cui ancora oggi coltivo un bel rapporto». Quali sono i valori che ogni giorno mira a veicolare attraverso il suo impegno? «Io interpreto in due modi questa domanda perché il mio impegno viaggia parallelamente su due binari, ha due cuori pulsanti: quello umano e sociale e quello professionale. Per quanto concerne il primo aspetto, sono felicissima di aver risposto alla pandemia mettendo a disposizione il mio lavoro. Il mondo ci stava costringendo a fermarci, ma io non mi sono mai fermata, non potevo arrendermi. Produrre mascherine per chi ne aveva bisogno, in un momento in cui le richieste erano davvero tantissime, ha aiutato me stessa, permettendomi di investire il mio tempo, e ha aiutato gli altri. Appena l’emergenza si è diffusa, le mascherine sono diventate un oggetto così piccolo, ma al contempo così indispensabile. Da un punto di vista professionale, invece, ho sempre provato a trasmettere quanto sia importante metterci sempre una buona dose di costanza e coltivare, nel proprio vissuto quotidiano, degli obiettivi da raggiungere. Credo che questa pandemia ci abbia portato alle radici del termine “necessità”: abbiamo capito che ogni lavoro può contribuire allo sviluppo e al bene della società. Ognuno di noi, qui, è indispensabile e non dovremmo mai dimenticarlo». I tessuti, come tutte le cose inanimate, sono muti: è l’essere umano a farli parlare, dando loro vita. Si ritrova in questa affermazione? «Io ho un bellissimo rapporto con i tessuti e con tutti gli oggetti che riguardano il mio mondo. Più di una volta mi è stata detta una frase: “Dalila, non c’è bisogno che tu descriva i tuoi abiti. I tuoi abiti parlano da sé”. Penso che sia uno dei complimenti più belli che si possano ricevere. È in questo, a mio parere, che si denota la bravura non tanto del sarto, quanto dell’artista. Significa dar vita, anima, ad un semplice capo di abbigliamento, un prodotto che a primo impatto può sembrare sterile. Quel che molti non sanno, e che invece la psicologia prova, è che anche un indumento, quando ci guardiamo allo specchio, può darci una luce diversa, una luce che ci cambia interiormente. Sentirsi belle e in pace con se stesse è una sensazione indescrivibile. Quando termino la lavorazione di un capo, passo ore davanti al manichino a cercare quel particolare che gli manca per essere perfetto e per fare in modo che la gente che lo acquista, o semplicemente si ferma a guardarlo, non senta il bisogno di aggiungere altro. È proprio il fatto che il tessuto sia muto a rendere speciale tutto questo, il mio dargli voce». In che modo riesce a comunicare il rapporto che ha con i tessuti attraverso il suo lavoro? «I tessuti sono il mio vero punto di partenza, il big bang da cui nascono le mie creazioni. Più che partire dalle bozze disegnate, io parto dall’odore, dalla consistenza, dalla vestibilità e dal colore dei tessuti, che riescono a trasmettermi molto. Credo che l’aspetto più curioso del mio rapporto con i tessuti risieda nel fatto che io mi diverta molto: che sia lana, che sia seta, che sia iuta, ho la possibilità di ideare il taglio giusto, nella sua specificità». Che rapporto ha con il prodotto finito che realizza? «Il rapporto che ho con i miei capi d’abbigliamento è mutato nel tempo. Ricordo che i primi tempi si trattava di un possesso, ero davvero gelosa di ogni creazione che producevo, qualsiasi capo diventava per me come un amico. Anzi, lo percepivo più come un figlio, un figlio che non avevo mai il coraggio di lasciare andare. Presto, però, ho imparato che proprio quel lasciare andare era la cosa giusta da fare e sono riuscita a trasformare la mia sofferenza nella gioia di vederli sfilare per eventi o di vederli indossati da qualcuno. La mia soddisfazione più grande è sentire le mie clienti affermare di sentirsi belle con ciò che io ho creato su misura per loro. Ricordo il rapporto che ho instaurato con ogni singola cliente che ho avuto, così come ogni singolo abito che ho “partorito” nel tempo. Più che creazioni, sono pezzi di cuore». Cosa le dà la spinta a proseguire con tanta determinazione per la sua strada? «Questa è la domanda che mi pongo io ogni giorno. Spesso e volentieri sono gli altri a credere in me e a spronarmi, è fondamentale avere il sostegno della propria famiglia, dei propri amici e anche di estranei, ma c’è qualcosa di realmente più forte di questo. Io penso che si tratti di puro amore verso quello che faccio, che a me non piace neanche definire “lavoro” in senso stretto. Mi ritengo fortunata perché sono riuscita a trasformare la mia passione nel mio lavoro. Spesso passo più tempo nel mio atelier che a casa e trascorro le notti intere a terminare le consegne: tutto questo non mi pesa. La notte è il momento più fruttuoso per il mio lavoro, perché posso dedicarmi ai tessuti senza il telefono che squilla e senza i rumori del mondo esterno. Oggi bisogna saper trovare la carica in se stessi, soprattutto da quando la pandemia ha fermato molte macchine lavorative, incluso il settore in cui lavoro. Il binomio segreto di quello che faccio sta nell’umiltà con cui affronto le sfide professionali e nella sicurezza della qualità che fa la differenza nelle mie proposte. Leggo davvero molto e guardo tantissimi film di persone che ce l’hanno fatta: anche questo mi motiva nell’andare avanti. Le storie a cui mi approccio nei miei viaggi tra libri e tv hanno come protagonisti persone normali, contraddistinte da una tenacia pazzesca e da un singolare spirito di sacrificio. Io sto sacrificando molti aspetti della mia vita per inseguire il mio sogno. Quando il mondo mi diceva che non potevo raggiungere un obiettivo, io ci mettevo il triplo delle forze e questo vale ancora oggi. Quando ho iniziato, non tutte le porte del mondo del fashion design mi sono state spalancate: sono partita dal niente per guadagnarmi una serie di conquiste. Ho girato il mondo per lavoro e non vedo l’ora di continuare a farlo. Non dobbiamo mai dimenticare che l’esser normali è il valore aggiunto che abbiamo tutti noi». Qual è, quindi, il suo obiettivo più grande? «Miro a far crescere un marchio “made in Puglia”, andando contro gli stereotipi secondo cui in Puglia non si può far carriera, non si può crescere, non ci sono alternative ad andare altrove per essere qualcuno. Voglio proporre la qualità dei capi d’abbigliamento realizzati nella mia terra: tenacia e pazienza sono le mie parole d’ordine. Il mio vero obiettivo, quello di inaugurare un atelier che richiami la vecchia sartoria ma che sia al contempo intriso di modernità, lo realizzerò al più presto. Le difficoltà non sono mancate, data la situazione inaspettata che ci si è prospettata davanti, ma sento che il mio sogno, che riassume tutti questi anni di duro lavoro, è ormai a un passo da me». Cosa consiglia ai giovani e alle giovani che desiderano sfondare nel campo della moda? «Come qualsiasi percorso, se non si ha la giusta tempra, è una strada tortuosa da intraprendere e, soprattutto, da concretizzare. Dall’età di 19 anni, quando ho iniziato gli studi nel settore della moda ed ero solo una matricola, ho iniziato a fare le prime sfilate e la mia vita è sempre stata improntata al lavoro. Ho dovuto tralasciare la Dalila ragazza per diventare la Dalila donna e imprenditrice che sono. Quando hai degli obblighi e delle responsabilità, devi rimboccarti le maniche e non pensare all’età che hai. Io mi sono catapultata nel vuoto, ho cercato ogni modo possibile per acculturarmi in un mondo di cui io vedevo solo il bagliore all’inizio, prima di poterne esplorare la bellezza dietro le quinte. In passato ho avuto tantissime esperienze negative sul lavoro, sono stata piena di ansie e di lacrime, ma sono proprio queste ad avermi trasformata nella donna che sono oggi, professionalmente parlando. Sono più sicura di me e delle mie competenze, so interfacciarmi con persone di qualsiasi età e di qualsiasi genere. Al mio primo mondiale, in Finlandia, avevo solo 21 anni e non sapevo dove mettere le mani. Ma tutto parte dalla passione e dalle rinunce che si è disposti a fare per il proprio sogno. Ogni traguardo che si raggiunge va reinvestito, è una lotta a non mollare mai, ad essere caparbi, ad essere coraggiosi nel prendere le proprie decisioni, anche le più estemporanee, come è capitato a me e a tutti con il coronavirus. Chi decide di intraprendere un percorso del genere, soprattutto se vuole lavorare in autonomia come sto facendo io, deve dare priorità alla propria attività: è un seme che nasce dal nulla, che va gettato per poi essere innaffiato, curato e soprattutto protetto. Solo così potrà germogliare». © Riproduzione riservata