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Un pittore veneto a Molfetta
15 settembre 2018

È stata inaugurata con successo in data 24 agosto la mostra antologica Scorci e Volti di una Città. Marco Tagliaro. “Un Pittore veneto a Molfetta”. L’allestimento, che raccoglie opere realizzate nell’arco di sessant’anni, sarà visitabile presso la Sala dei Templari di Molfetta sino alla data del 10 settembre. L’iniziativa è stata fortemente voluta dall’Assessore alla Cultura, nonché Vicesindaco, Sara Allegretta, e dal curatore, Gaetano Mongelli, ed è inserita nel cartellone dell’Estate molfettese. L’evento, per cui il Comune ha potuto contare sull’apporto dell’Associazione Artistika, ha goduto di numerosi patrocini (Regione Puglia, Città Metropolitana di Bari, UNPLI Puglia, UNPLI Veneto, Città di Mirano, Pro Loco di Combai, Comune di Lipari-Alicudi, Amper Damnoen Saduak-Thailandia). L’artista, milanese d’origine, vive a Combai, in provincia di Treviso, ma, come ha evidenziato l’Allegretta durante l’inaugurazione e sulle pagine della pubblicazione realizzata, è “conosciutissimo a Molfetta, perché negli ultimi anni ha scelto di soggiornare qui nei mesi estivi”. Nei suoi viaggi, che l’hanno veduto innamorarsi della Thailandia – proprio com’era accaduto negli anni Dieci al pittore Galileo Chini –, ma anche delle Eolie (Alicudi in particolar modo), di Praga e altri luoghi, anche la nostra città ha conquistato un posto tutt’altro che di secondario rilievo. L’iniziativa ha veduto parallelamente la realizzazione di un catalogo, edito da Nuova Stampa (Pieve di Soligo, Treviso), curato dal professor Gaetano Mongelli, con scritti anche del Sindaco di Molfetta, Tommaso Minervini, della già citata Allegretta, del Consigliere comunale Fulvio O. Spadavecchia, del Sindaco di Mirano, Maria Rosa Pavanello, del Responsabile dell’Ufficio URP del Comune di Mirano, Nicoletta Ferrari, e testimonianze critiche di Giulia Reitani e Romolo Chiancone. Prima delle tavole, corredate da pensieri dell’autore, che ne illustrano genesi e fini, la sezione più corposa è costituita dal contributo Marco Tagliaro e Molfetta. L’approdo ritrovato, dello stesso Mongelli. Studio che si inserisce felicemente e con originalità in un tracciato critico che ha veduto germinare le illustri letture, tra gli altri, di Gianna Marcato, Giorgio Segato ed Eugenio Manzato. Nel catalogo, Mongelli tratteggia il profilo di un artista che ha fatto dell’erranza, il Wandering, l’essenza della sua esistenza e del suo itinerario creativo. “Pellegrino di Puglia” come Cesare Brandi, Tagliaro è al contempo viaggiatore che s’incanta e incanta nella contemplazione della Natura. Il “fondamento germinativo che promuove ogni sua pratica” è il tentativo, felice, “di stabilire (…) una tensione dialettica tra natura, arte e cultura”. Anche in questo caso, com’è sua abitudine, Mongelli muove dall’esperienza particolare del pittore per approfondire concetti di carattere generale, come l’impressione che tale ‘costante’ sia “fisiologica di qualsivoglia ‘Mezzogiorno’ in qualsivoglia parte del mondo”. Sono molti gli aspetti che lo storico dell’arte sottolinea a proposito della produzione di Tagliaro. Riconosce, infatti, all’artista una volontà di combinare e armonizzare ciò ch’è organico a ciò che non lo è, unitamente alla notevole padronanza del ‘mestiere’, senza la quale l’Idea non potrebbe inverarsi né conoscere l’estrinsecazione in una forma adeguata. Padronanza che, in un’epoca che spesso ha rinnegato la fatica e inseguito le sirene di una “inconsulta rapidità di esecuzione”, rappresenta senz’altro un valore aggiunto di tale esperienza. Nell’opera di Mongelli, l’immagine di Molfetta percepita ed espressa dall’artista diviene occasione per una riflessione più articolata sull’anima della nostra città, in quanto Tagliaro ha realizzato non, come sottolinea lo studioso, una mera descriptio urbis, che potrebbe restare confinata a un livello rappresentativo superficiale. Quello di Molfetta diviene un prezioso identikit “ovattato in una sorta di religioso silenzio”, in cui le presenze degli abitanti potrebbero apparire frutto di un’intrusione e invece concorrono, il più delle volte, al “tracciato identitario della Città Vecchia”. Preziose le analisi degli oli su tavola in formato maggiore, accomunati dalla caratteristica della natura double face. Ha un valore quasi rituale la Raccolta delle olive, nel lavoro operoso della figura maschile, coadiuvato e completato dalla donna silente, nell’aura di una natura poderosa, in cui la dimensione della fatica sembra riscattata in virtù dell’“apertura verso un orizzonte quanto mai solare”. Ci pare poi pienamente condivisibile anche l’analisi dell’olio su tavola Il mare di spalle, che muove dal lato postico, per identificare un’attitudine da “conversazione profana” per le tre figure dagli occhi bassi, circolarmente affaccendate attorno a ceste di baccelli da sbucciare. Particolarmente felice, anche perché esattamente questa è stata la prima impressione che l’opera ci ha trasmesso, è l’accostamento alla leonardesca Vergine delle rocce, pur nella diversità epidermica delle due composizioni. Un’esperienza importante, dunque, questa dell’esposizione di Tagliaro per la nostra città. Sono numerosi i fattori che ci colpiscono nell’opera dell’artista. Innanzitutto un’onestà intellettuale che lo induce, con acribia tecnica – nel piccolo, come nel medio e grande formato –, a inverare la sua personale percezione di un mondo osservato con acume straordinario, nella provincia marittima quanto nelle colline in cui il potere di una Natura benevola e dimentica del dolore umano ha pennellato le sue meraviglie. Le influenze di Tonello, Barbisan, Borin si avvertono, ma è Leonardo in primis il nume tutelare di questo percorso. Nella Rugosità di un muro scalcinato come tanti nelle vie della Città Vecchia, una pianta si abbarbica quasi a chiedere di esistere, laddove la scabra ruvidità vorrebbe solo graffiare via, nel trionfo del non essere. E che dire del bellissimo Contrasto acquarellato di architetture, tra ombre e luci, a far risaltare forse, pur a margine della composizione, le gemelle torri campanarie con le loro bifore, o forse i palazzi, con quei balconi non inquinati da presenza umana? E poi la “fuga prospettica” dell’acquarello Lontano, che suggerisce il dilatarsi di spazi, proprio mentre gli edifici potrebbero, nel loro accostarsi, quasi baciarsi, comunicare un senso di claustrofobia. Quanto alle figure umane, la resa è particolarissima, tutt’altro che idealizzante, ma a tratti tendente, complice il medium pittorico, all’evanescenza. Tagliaro ci sembra forse suggerire che il dato fisico, mutevole, sia solo phainòmenon, di un’essenza che finisce col diventare rappresentativa, sottraendosi al fluire del Tempo, dell’anima del luogo stesso cui è abbinata. Il percorso di Tagliaro conquista, nell’acquaforte (si pensi alla “Composizione con conchiglie”, tema felicemente affrontato, nel 1936, anche da Giovanni Barbisan) come nell’acquarello e nella pittura a olio. E ci riconduce a un ritmo di auscultazione interiore della Natura e del cuore dell’uomo, che si concreta nella scalinata rocciosa dei temi di Alicudi e nel foro della grotta, da cui, inatteso, giunge all’osservatore il respiro profondo del mare e dello Stromboli in lontananza. O ancora nel Profilo di una figura maschile pensosa (1971, sanguigna su carta) o della vecchia coglitrice delle mele, nata alla fatica e piallata nella roccia. Un ritmo che nel 2018 potrebbe forse, se solo si riuscisse a riscoprirne i benefici, restituire alla sua dimensione più profonda l’uomo, annichilito in una frenesia di cementificazioni destinate forse a non durare, confinato in quartieri in cui persino il bacio del Sole si traduce in arsura che devasta la mente. © Riproduzione riservata

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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