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Umberto del camposanto contadino per amore
15 settembre 2022

I n città nessuno sapeva spiegarsi il perché ci fosse e come potesse essere così rigoglioso un piccolo orto nato così all’improvviso in un fazzoletto verde del Camposanto. C’è che al fenomeno in tanti si erano cimentati. Perpetue credulone associavano alla mano misericordiosa di Dio tanta bontà; le vedove a qualche cospirazione del demonio e ne intravedevano un cinico invito a mangiarne i frutti; i vedovi invece rivendicavano la facoltà di poterne disporre, in fondo erano i frutti del corpo che consumandosi ritornava in vita con nuove funzioni e colori; i benpensanti invece cercavano da parte loro il colpevole da macchiare con l’onta e al quale far pagare l’abuso di un qualsiasi potere. Intanto zucchine, pomodori, melanzane fiorivano e crescevano in quella spettrale terra dedicata al riposo dei morti. Qualcuno si era appostato dietro qualche gentilizio o cappella di famiglia per capire i movimenti che potevano atti- varsi durante il giorno, durante la notte invece no, troppo fa- ticoso restare lì a spiare la vita delle anime defunte. Erano giunti persino un prete ed una squadra di impiegati del comune; dopo una benedizione di quel campo, i signorotti avevano estirpato tutti i frutti di quell’orto cimiteriale per poi farli consumare alla cena dei poveri. Ma dopo qualche giorno eccoli nuovamente là, quei gioiosi frutti della terra ad invitare con i loro colori e profumi qualsia- si passante si avviasse verso quel- la strada fatta di tombe e lapidi. Sopra tutti c’era un sospet- tato, questi era il custode del Camposanto di città. Si chiamava Umberto, fisico asciuttissimo, tanto che un sof- fio di vento sembrava potesse buttarlo giù per terra; emacia- to con guance trattenute come quando si voglia trattenere il respiro; camicia azzurra ben stirata ma con colletto coi baffi spiegazzati e consumati per l’uso smodato di quel reperto. Da quando i giornali e le TV ne avevano parlato, il nostro Umberto camminava spedito non salutando più né a destra né a sinistra i fiorai che aveva conosciuto nel tempo. Rigava a passo spedito pur se un tantino caracollante verso il suo gabbiotto, non prima d’aver aperto come un San Pietro i tanti cancelli del Camposanto. Fingeva di leggere i pieghevoli pubblicitari o di compilare il suo cruciverba, sempre quello da cinque anni, intanto sbirciava la gente che si avvicinava al suo orticello. Già, ci avevano azzeccato. Quell’orticello era un suo delicato dono. Nella sua mente non c’era nulla di sbagliato. C’è chi dona fiori, c’è chi scrive una lettera, un messaggio, un pensiero posto sulla tomba del proprio congiunto. A due passi da quel tappetino di pomodori c’era difatti la tomba spoglia di sua moglie. Annina Camporeale (12/12/1950 - 1/4/2021). L’epigrafe scarna: “non ti di- menticherò mai. Tuo marito”. Annina, contadina, ottava fi- glia di una famiglia povera. Una vita dedicata alla terra. Un’esistenza fatta di perenni sacrifici, rosari al vespro, e tre viaggi in una vita fatti fuori Città. Poi solo schiena curva, mani segnate, sudore sulla fronte. Era zitella, la gente così condannava le donne; quando un giorno apparve all’ingresso della sua campagna un ragazzotto sulla quarantina, le parve Ado- ne; un principe di quelli che le bambine sognano ad occhi aper- ti. Sigaro lungo tra le labbra, sguardo acuto, baffetti intelli- genti. Piedi piatti ma come si dice: “a caval donato non si guarda in bocca”. Era lì per scaricare ettolitri di acqua nei pozzi. Lui si pre- sentò: Umberto, lei rispose: «sono Annina» abbassando lo sguardo. Così le era stato insegnato: abbassare lo sguardo dinanzi all’uomo. Una deferenza che proveniva dall’insegnamento del pudore, e il sentimento della vergogna, tutte le donne, soprattutto quelle del Sud portavano dentro il segno di quella sottile e ingiusta sottomissione. Umberto sostituiva un suo amico. Quello avrebbe dovuto essere il suo primo e ultimo giorno di lavoro. Un’importante missione la sua. Si rifletta sulla meraviglia del gioco dei ruoli: Umberto portava acqua fresca alla terra caldissima e arsa di Annina. E mentre scaricava acqua, Umberto s’accendeva di desiderio, avvampava di calda fiamma. Annina lo guardava meglio, lo ammirava! Era la prima volta che sentiva sgorgare un’appartenenza così intima e corrisposta. Per tre anni ancora Umberto dissetò la campagna della famiglia di Annina. Le dichiarò il suo amore. Povero lui, povera lei. Stessa dote la povertà. Una ricchezza inesauribile però l’amore che si portarono per tutta la vita l’uno per l’altra. Anno Domini Duemilaventi. Annina, fazzoletto sulla testa, questa volta non per ripararsi dal sole ma dagli sguardi impie- tosi della gente. Era rimasta senza capelli dacché aveva dovuto curarsi a seguito di una malattia mortale. Sapeva che stava per lasciare Umberto. Prima di andare lo aveva voluto ardentemente al capezzale e così gli aveva detto: «ti ho sempre amato amore mio!». E lui tremando e piangendo le aveva risposto: «cosa posso fare per te Anima mia! Io non ho più lacrime!» e lei facendo ricorso alle ultime forze: «amami sempre ma non coi fiori. Ricordami con i nostri frutti più belli, e dalli alla gente!». Un testamento meraviglioso. Umberto si sentì investito di potere come un Papa. L’orto venne smantellato e por- tato via pezzo dopo pezzo, zolla dopo zolla dal Camposanto. La gente giudica senza sapere. Noi viviamo prigionieri delle nostre categorie binarie. Il regolamento e la legge non possono fantasticare, non han- no fantasia. Ma Umberto non si è arre- so. Ha portato nella sua campa- gna le spoglie di Annina ed è lì che continua ad innaffiare i suoi frutti ubertosi e colorati.

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