Ricordo del poeta di Molfetta Mimmo Amato nell'anniversario della scomparsa
MOLFETTA - È trascorso un anno dalla scomparsa del poeta Domenico Amato: Mimmo, per gli amici. La sua sensibilità traspariva nei suoi versi, che hanno donato al petroso molfettese cadenze di struggente tenerezza, ma anche nella dedizione al teatro. Ora, nella tradizione dell’avanspettacolo, voleva far sorridere il pubblico a dispetto della frenesia esistenziale; in altri casi, desiderava omaggiare – e contribuire a mantenere vivo – il magistero e l’esempio di figure come don Tonino Bello, a cui Amato ha dedicato la pièce El ojo de los demàs.
Nelle sue quattro sillogi, Atturnë a la frascèërë (1995), Ziaréllë (1999), Fascìddë (2001), Chjêngaréddërë (2005) e Pe ttèëchë (2007), Mimmo ha dato voce al sublime inferiore, rinnovellando la tendenza a innalzare umili, quasi insignificanti, presenze della quotidianità, elevandole attraverso la voce della poesia. Cose da nulla, scaglie di pietra, scintille sono le vestali di un piccolo mondo che il dialetto esalta, con il suo portato di espressività genuina, di musica ruvida eppure dolcissima, di immagini che saltellano al pari delle “palombelle dispettose” care a Mimmo. Allo stesso modo degli studenti a lui cari, che rappresentava irrequieti dietro il portone della scuola, desiderosi di spiccare il volo dalle lezioni alle “strade d’oro / del meriggio”, Amato riteneva che le parole delle sue poesie scalpitassero desiderose di venire alla luce, in atto di resistenza al labor limae imposto del poeta (che pure c’è ed è evidente, nella bella fattura dei versi dialettali e delle versioni in italiano dello stesso Amato).
La scelta del dialetto era un atto di amore nei confronti della sua Molfetta, ipostatizzata nel suo simbolo più alto: il mare. Il mare che si “inazzurra”; il mare che cela nel suo fondale tesori che si fanno verso; il mare che – con sensibilità ambientale – Mimmo effigiava piagato dai miasmi che l’uomo vi introduce, in un’opera costante di depauperamento della Natura. Il pelago maestoso appariva – in uno dei suoi testi – simile a “nu lóttatòërë / ngënëcchjatë / ind’o sëlénzie dë la réënë”. Alla navigazione di “fiumi bianchi”, in un bellissimo testo dedicato alla moglie Consiglia, assimilava, non a caso, anche il percorso della morte, da lui concepita, peraltro, per effetto della fede, come principio di un nuovo raggiante mattino.
Con una poesia tratta dalle sue Chjêngaréddërë vogliamo ricordarlo in questa circostanza.
Oggi il mare e il cielo Òëscë u mêrë e u cìëlë
sono un’unica cosa. so nê còësë assólêméndë.
Segno col dito Ségnë cu dìscëtë
l’orizzonte. la chëmbàinë.
Mi faccio gabbiano Addëvéndë gaggêne
dalla riva da sòëp’a la ràipë
prendo il volo pìgghje u vùëlë
lo inseguo. lë vòëchë drèëtë.
Il cielo apre U cìëlë aprë
ad un altro cielo. a nu altë cìëlë.
Il nulla si fa mondo. Rë nnuddë addëvéndë munnë.
Le cose brillano Rë ccòësë allëmèscënë
senza luce sénza làuscë.
Mi sento Më séndë
ai piedi dell’eternità. a lë pìëtë dë l’ètèrnëtà.
(Poesia di Domenico Amato, da Chjêngaréddërë, Molfetta, Minervini, 2005).
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Autore: Gianni Antonio Palumbo