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Storie di quotidiana intolleranza
15 gennaio 2008

Piazza Margherita di Savoia. Ore 7:35-8:00, le auto dei pendolari avanzano celermente; con aria annoiata i bambini e i ragazzi si avviano verso le scuole; i negozianti alzano lentamente le loro saracinesche; su una panchina della piazza siede comodamente un barbone circondato dai suoi pochi averi, da qualche cartone, da un po' di spazzatura dalla quale trae qualche pezzo di cibo. Passa il camion della spazzatura per la normale vuotatura dei cassonetti: «Uè u stù (fischio), uè cretìn (pernacchia)…» gridano sistematicamente gli addetti, attirando sguardi perplessi dei più. Non può mancare la risposta a volte volgare a volte meno, ma certamente accompagnata da “vocalizzi” del senzatetto malcapitato ormai stufo dell'abituale trattamento riservatogli. La scena si ripete più e più volte non solo a opera dei netturbini, ma anche talvolta dei passanti. Allora viene da domandarsi dove sia la sensibilità, dove il rispetto e dove il buon senso della collettività. Barbone, immigrato, povero, zingaro, ambulante… tutti esulano in vario modo dalla “normalità” e quindi sono bollati come diversi e quindi, secondo quanto definito dal dizionario di italiano, “potenzialmente pericoloso”. Ma l'uguaglianza tra diversità e pericolosità è quasi scontata e quindi l'emarginazione diventa sicura conseguenza. Questa problematica ha profonde radici nel passato: “negri”, “marrani”, pellerossa, indios sud-americani. E' proprio a questo proposito che un profondo rinnovamento del pensiero, fondamentalmente intollerante, fu operato, già nel '500, da Montaigne. Egli definì l'indio come il “buon selvaggio” contrariamente all'opinione comune secondo la quale questo era un mostro. Il filosofo propugna un cambio di prospettiva, che sarebbe da attuare anche oggi, possibile nel momento in cui c'è disponibilità a non assurgere la propria identità come unico luogo di confronto, in questo modo, si dichiara l'inevitabilità della diversità: “Io non incorro affatto nel comune errore di giudicare un altro secondo quel che io sono. Ammetto facilmente cose diverse da me”. Il suo pensiero risulta calzante all'episodio e attualissimo poiché ci si trova in una società che si proclama tollerante, ma di fatto non lo è. Ma se è vero che operare tali cambiamenti in una corpo sociale è un processo lungo e difficile, almeno il rispetto, inteso come sentimento e forma di educazione che porta a riconoscere i diritti e la dignità di un altro essere umano, è quantomeno auspicabile. Tuttavia, anche questo sembra essere troppo difficile da realizzare, allora non rimane che fare ricorso alla sensibilità, di cui ciascuno è dotato, per capire la situazione di indigenza in cui versa questa persona diversa. Proprio questa potrebbe essere, da sola, il motore del cambiamento. Da un episodio di questo tipo, sia pure solo verbale, ancora una volta si nota come il “forte” si senta autorizzato a maltrattare il più debole e che dagli altri non arrivi una ferma condanna delle sue azioni. Ciò evidenzia, invece, solo la sua pochezza.
Autore: Serena Minervini
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