Recupero Password
Siate realisti, chiedete l’impossibile!
15 maggio 2018

Un mese fa, presso il Seminario Regionale la brigatista dissociata Adriana Faranda, e la figlia di Aldo Moro Agnese, hanno narrato il lungo difficile percorso che dopo anni ha consentito loro di superare il muro del silenzio e del dolore, e di approdare ad un sereno rapporto di reciproca comprensione. La sala era gremita, il pubblico attento e l’atmosfera, almeno inizialmente, tesa. Poi la sorpresa per l’amicale rapporto che legava le due protagoniste ha conquistato l’uditorio, fugando i dubbi e le diffidenze iniziali. Qualche giorno prima la brigatista Barbara Balzerani, nel corso di una conferenza tenuta presso un centro sociale per presentare un suo libro, aveva criticato due inediti mestieri: quello delle “vittime del terrorismo” e l’altro dei “dissociati a tempo pieno”. Le sue motivazioni, esposte con durezza e quasi con sfida, erano le solite: in quegli anni c’era una guerra, ci sono stati caduti da entrambe le parti, ma la nostra guerra aveva una caratteristica: era quella giusta. La Faranda e la Balzerani hanno scontato entrambe oltre 15 anni di carcere. Ricorre in questo mese il cinquantenario del ‘68. Ci saranno articoli, saggi, testimonianze, programmi televisivi; Paolo Mieli prepara le sue innumerevoli, melense, scontate banalità. Ma la verità è che quel periodo non è ancora storia; anzi, è tuttora passione. In quegli anni io risiedevo a Genova; tornai a Molfetta nel 1977. Non ho quindi ricordi personali che riguardino la nostra città, tranne uno che, per quel che vale, riferisco: il giorno del rapimento di Moro tutti i partiti organizzarono in fretta un corteo che percorse in un silenzio spettrale le vie della città. Mi trovavo con amici in Piazza Municipio al momento dello scioglimento quando, da un gruppo di giovani che stazionavano verso via San Pietro, si levò un grido: “una, dieci, mille Via Fani! Onore ai compagni caduti!”. Nessuno li curò, nessuno reagì, quelli si dileguarono tranquillamente nel centro storico. A mio parere l’intricato groviglio di quelli anni non può che dipanarsi attraverso l’enucleazione di alcuni nodi problematici. La loro individuazione è abbastanza facile, insieme alla periodizzazione, e fatte salve le personali e diverse interpretazioni. Molto più difficile risulta invece la determinazione di causa ed effetto. Cominciamo da quella istituzione che per unanime consenso definiamo Stato. Qualsiasi studente di Giurisprudenza o di Dottrine Politiche, non esiterà a definirlo con parole tratte da un comune trattato di Diritto Costituzionale. Vediamolo ora in azione. 12 settembre 1968: Lodè (Nuoro), nel corso di una manifestazione i carabinieri aprono il fuoco. Un morto. 2 dicembre 1968: Avola, la polizia spara contro una folla di lavoratori agricoli in sciopero. Due morti e 50 feriti. 9 aprile 1969: Battipaglia, la polizia spara contro un corteo che protesta per la chiusura di due aziende. Due morti e 200 feriti. Vediamo ora un secondo elenco. 12 dicembre 1969: Milano, bomba alla Banca dell’Agricoltura. 17 morti e 100 feriti. 22 luglio 1970: Gioia Tauro, attentato al Treno del Sole, sei morti. 17 maggio 1973 Milano: bomba alla Questura, quattro morti cinquantadue feriti. 27 maggio 1974: Brescia, bomba durante una manifestazione antifascista, otto morti, 70 feriti. 4 agosto 1974: bomba sul direttissimo Roma-Brennero. Dodici morti, decine di feriti. 2 agosto 1980 Bologna: bomba alla stazione, ottantacinque morti, duecento feriti. Questi due elenchi sembrano apparentemente non avere nulla in comune, a parte i morti innocenti. Nel primo caso le forze dell’ordine hanno agito alla luce del sole, le eventuali responsabilità sono state sottoposte a regolare indagine e procedimenti della magistratura, risoltisi peraltro con ampie assoluzioni e archiviazioni. Nel secondo, gli esecutori sono stati in parte arrestati, ma i loro processi sono stati rinviati, depistati, le sentenze rovesciate nei diversi gradi, i reati prescritti. Buio totale sui mandanti. Pochissimi sono i colpevoli finiti in carcere. Insomma, giustizia non è stata fatta. Tuttavia, c’è una circostanza che costituisce un punto di contatto tra le due serie di eventi: in tutte le stragi dalla seconda è emersa una evidente matrice neo-fascista, e vi sono implicati a vario titolo agenti e funzionari dei servizi segreti che, come è noto sono organi dello Stato. Insomma, polizia contro i braccianti, bombe nere nel mucchio. Non va poi dimenticato che l’inizio della stagione stragista ha coinciso con il diffondersi di una grande mobilitazione operaia in tema di rivendicazioni salariali e rapporti industriali, tendente a saldarsi con la protesta giovanile. Ora, se tutto questo fosse vero, resta da chiedersi: perché? Molto semplice: basta leggere alcune frasi di un filosofo tedesco dell’800, barbuto e scorbutico, tale Carlo Marx. La prima: “la quota di libertà concessa dallo Stato borghese è direttamente proporzionale alla quota di profitto percepita in quel momento dal capitale: riducendosi questa, si riduce inevitabilmente la prima”. La seconda: “il potere politico dello stato moderno non è che un comitato il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese”. Detto in altre parole, il capitale assegna allo Stato il compito di assicurargli una certa quota di profitto, e di limitare o, se necessario, azzerare le libertà formali nei modi che riterrà opportuni ed efficaci, qualora tale quota rischi di ridursi. Ebbene questo teorema, recepito come verità assoluta e come unico canone interpretativo del processo storico-moderno, ha permeato di sé il sentire di una intera generazione. Se non si capisce questo, non si capisce nulla del ‘68. Un’altro nodo cruciale di quella vicenda è costituito dai movimenti giovanili e dalla loro evoluzione. La prima fase, che ebbe caratteristiche simili prima in America, e successivamente in diversi Paesi dell’Europa occidentale, fu caratterizzata da una critica radicale degli assetti di potere, dovunque e comunque essi si esercitassero. L’individuazione dei bersagli fu capillare, metodica: nulla e nessuno fu risparmiato. Il potere accademico, la trasmissione istituzionale e verticale del sapere, le pratiche selettive nell’istruzione, la razionalità produttiva del neocapitalismo, l’uso repressivo della forza pubblica, la critica del modello sovietico, l’imperialismo americano e le sue responsabilità nell’instaurazione di sanguinari regimi fascisti, la politicizzazione del privato, la tolleranza delle diversità sessuali, l’emancipazione femminile, la libera soddisfazione dei propri desideri e bisogni, la famiglia considerata come luogo decisivo per la perpetuazione dell’immobilismo culturale e della subalternità sociale, il partito comunista come un pachiderma adagiato a coprire innominabili delitti. La rivendicazione di tutti questi obiettivi, condotta dalla teoria alla prassi, si trovò a fronteggiare progressivamente la repressione poliziesca con annessi fermi ed arresti, soprattutto quando dalle Comuni e dai “figli dei fiori”, si passò alle fabbriche. Il Movimento, la violenza non l’ha inventata e nemmeno scoperta, l’ha ricevuta. Intanto, l’inizio, a partire dalle bombe di Milano, della stagione stragista, confermava l’opinione di chi riteneva inutile, oltre che suicida, il perpetuarsi di una pratica unicamente difensiva. Quando, si affermava nei documenti, si colpiscono i gangli nevralgici del potere economico, è inevitabile che scatti l’azione repressiva delle classi reazionarie: a quel punto bisogna essere pronti ad una risposta adeguata, assumendo l’iniziativa sullo stesso terreno che è proprio dello Stato: quello del monopolio della violenza. I costi sono nel conto: la Resistenza ha insegnato che il problema morale è in politica insolubile. L’azione delle avanguardie avrebbe innescato la rivolta proletaria. La torsione violenta di una parte del Movimento ormai imploso in numerose sigle autonome, e spesso tra loro conflittuali, implicò l’uso delle armi prima come necessità episodica a carattere dimostrativo poi come unico asse di riferimento assunto consapevolmente, come priorità decisiva per una strategia compiutamente e coerentemente rivoluzionaria. I gruppi che non scelsero di prendere le armi, e furono numerosi, restarono schiacciati dalla repressione che comunque li colpiva, e dalla sinistra armata che irrideva la loro ininfluenza operativa e mediatica. Vanno ricordate coraggiose dissociazioni e deliranti accuse di tradimento. La deriva armata, il totale isolamento da quelle classi delle quali si illudevano di essere l’avanguardia, le vittime scelte a caso, l’assassinio dei parenti dei pentiti, esecuzioni sommarie degli ostaggi, condussero centinai di giovani alla morte e agli ergastoli. Dalle canzoni di Bob Dylan a due metri di terra. Il Partito Comunista ignorò il ‘68 ai suoi esordi, tacciandolo di movimento piccolo-borghese, lo avversò quando vide in esso un potenziale concorrente elettorale, lo combatté senza quartiere negli anni della lotta armata. D’altra parte il partito di Berlinguer non colse per tempo le profonde trasformazioni strutturali che modificarono in profondità il nostro Paese nel decennio 1970- 1980, a cominciare dal tramonto del fordismo, non capì il mutamento di fase, e non si confrontò con gli aspetti più selvaggi della modernizzazione in atto e del nascente pensiero unico liberista. Ossessionato dall’ansia di differenziarsi dallo stalinismo a lungo negato e persino giustificato, si trincerò in un ferreo legalitarismo, confinante a volte con la mera ragion di stato. Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, sui quali peraltro pesano sospetti di infiltrazioni internazionali mai chiariti e mai investigati, sortiscono due effetti sui quali la discussione storiografica è ancora aperta. Da una parte il momento di maggior successo della lotta armata coincide paradossalmente con l’inizio del suo declino. Arresti, esecuzioni perpetrate a caso senza nessuna logica, seppure omicida, dissociazioni, pentimenti. Bande di assassini colpiscono innocenti in un Paese distratto che legge sul giornale quelli orrori con lo stesso interesse con il quale cerca le previsioni metereologiche. Dall’altra parte, con l’eliminazione di colui che ne era stato da parte moderata il teorizzatore e il promotore, falliscono il progetto politico del compromesso storico, il “farsi Stato”, il riassumere nella statualità tutto il proprio agire politico, perseguiti con tenacia dal Partito Comunista. Due anni dopo falliva anche il grande sciopero alla Mirafiori. Il 16 ottobre 1980, dopo trentacinque giorni di lotta 24.000 operai erano posti i cassa integrazione. La Fiat aveva vinto. Cominciava la lunga glaciazione craxiana. Dopo dodici anni il piano era riuscito: qualcuno, e non solo in Italia, poteva brindare al cessato pericolo. © Riproduzione riservata

Autore: Ignazio Pansini
Nominativo  
Email  
Messaggio  
Non verranno pubblicati commenti che:
  • Contengono offese di qualunque tipo
  • Sono contrari alle norme imperative dell’ordine pubblico e del buon costume
  • Contengono affermazioni non provate e/o non provabili e pertanto inattendibili
  • Contengono messaggi non pertinenti all’articolo al quale si riferiscono
  • Contengono messaggi pubblicitari
""
Quindici OnLine - Tutti i diritti riservati. Copyright © 1997 - 2025
Editore Associazione Culturale "Via Piazza" - Viale Pio XI, 11/A5 - 70056 Molfetta (BA) - P.IVA 04710470727 - ISSN 2612-758X
powered by PC Planet