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Siamo in gabbia, la testimonianza di un gruppo di cittadini di Molfetta alla manifestazione della piattaforma Eurostop
28 marzo 2017

Un gruppo di molfettesi partecipanti alla manifestazione indetta dalla piattaforma Eurostop dello scorso 25 marzo, ci ha inviato una testimonianza sulla vicenda:

«Siamo in gabbia.

E’ il 25 di Marzo, viaggio verso Roma in pullman con un unico compagno da Molfetta di notte, una notte scomodissima. E’ il compleanno di papà, lui non condivide le motivazioni della protesta né i metodi che probabilmente verranno adoperati. Mamma è preoccupatissima, come al solito.

Spunta il sole e ci svegliamo, o per lo meno smettiamo di tentare di addormentarci, ci accorgiamo di avere tutti i muscoli indolenziti, le ginocchia a pezzi e i denti doloranti.

Subito scopriamo da internet che la situazione è molto più tesa di quello che ci aspettavamo, di quello che tutti si aspettavano: alcuni compagni in mattinata hanno ricevuto il foglio di via per avere negli zaini felpe e k-way neri.

Cos’è il foglio di via?

Significa che a Roma non ci puoi entrare più fino a 3 anni perché sei considerato pericoloso.

Io indosso una felpa nera con cappuccio. Oggi sono pericoloso e i due limoni che ho nello zaino mi rendono un terrorista.

Siamo in gabbia.

Scendiamo dall’autobus e ci incamminiamo verso casa di un compagno nostro concittadino che studia a Roma. Negli ultimi periodi a guardia delle stazioni della metro delle grandi città ci sono sempre appostate pattuglie di 3 o 4 militari, con fucili lunghi quanto una gamba che ti vietano perfino di correre. Oggi di fronte alla stazione Tiburtina ci sono, oltre ai soliti soldati, quattro camionette della polizia. Decidiamo di deviare e continuare a piedi, in 30 minuti siamo a destinazione. Prepariamo la bottiglietta con acqua e limone e ci scambiamo informazioni sul corteo che si terrà nel pomeriggio, quello ‘a più alto rischio di scontri’, quello a cui abbiamo intenzione di partecipare. Decidiamo di prender parte anche al corteo della mattina, quello ‘pacifico’ organizzato da partiti, sindacati e associazioni ambientaliste , ci posizioniamo nello spezzone più radicale e critico a fianco di migranti, disobbedienti e collettivi antirazzisti.

Il corteo è tranquillo e pacifico, ma già si notano nelle vie trasversali cordoni di agenti in antisommossa. Ci accorgiamo che non siamo gli unici che parteciperanno ad entrambi i cortei e scopriamo che il punto iniziale del corteo è stato spostato di circa 300m.

Arrivate le 13 decidiamo di staccarci e procedere a piedi verso Piazzale Ostiense.

Lungo il tragitto che dura circa 45 minuti, mi sento immobile e impotente.

Parliamo a bassa voce e diffidiamo di tutti, chiunque potrebbe essere un agente in borghese. Man mano che ci avviciniamo, sentiamo sempre più rumori di radioline, i suoni acuti e i rumori di interferenza  si sovrappongono e creano un terrificante concerto di repressione, ma di divise ancora nemmeno l’ ombra.

Siamo in gabbia.

Nell’ultimo tratto ecco che appaiono le divise. Centinaia di agenti, decine di camionette, ma anche gruppi di poliziotti a cavallo. Sembra di essere in guerra. Non ci sono altre vie, ci dobbiamo passare attraverso. Tentiamo di far finta di nulla e di parlare del più e del meno, ma la tensione sale sempre di più. Tento di non abbassare mai gli occhi e di guardare sempre dritto, ma ad un tratto mi volto e per qualche frazione di secondo incrocio lo sguardo di un ragazzo. Può avere la mia età, forse qualche anno in più. Ha i capelli più lunghi rispetto agli uomini che ha a fianco e degli occhi grandi. Indossa una divisa, un casco, un manganello e un’arma da fuoco. Io indosso una felpa nera, un paio di jeans e uno zaino nero. Oggi sono suo nemico, so che è addestrato per questo e che non ci penserebbe due volte a picchiarmi, anche se indifeso. So che lui pensa lo stesso di me, so che entrambi oggi siamo lì convinti di fare la cosa giusta.

Siamo in gabbia.

Arriviamo al punto di assembramento e incontriamo dei compagni di Siena. Alcuni di loro sono arrivati in auto e scopriamo che all’uscita dell’autostrada tutte le auto sono state controllate e in molti perquisiti. Interi pullman sono stati dirottati direttamente in questura. Non riusciranno a prendere parte al corteo.

Siamo in gabbia.

Siamo in pochi, forse la repressione e la tensione generata dai media hanno funzionato.  Da questo momento fino alla fine della giornata ascolteremo costantemente il rumore di fondo dell’elicottero che vola sopra le nostre teste, a volte più in alto, a volte più vicino e costantemente osserverà ogni movimento.

Il corteo tarda a partire, più passa il tempo e più cresciamo numericamente. Ad un certo punto si avvicina il gruppo degli autonomi, perfettamente organizzato, a rimpinguare i numeri del corteo. Oggi pomeriggio tutti siamo consapevoli di ciò che potrà accadere, al mio fianco ci sono numerosi anziani, nessuno potrà accusare nessun altro per aver rovinato una manifestazione ‘pacifica’.

Un compagno di Siena viene intervistato da una rete nazionale e gli viene chiesta la sua opinione riguardo al rischio di scontri. Nessuna domanda sulle motivazioni della protesta, solo domande sugli scontri. Lui dice semplicemente “non è un mio nemico chi è più arrabbiato di me”, parole forti di certo condivise da tutti questo pomeriggio.

Il corteo parte, lentamente e relativamente silenzioso, il rumore dell’elicottero sempre presente.

Siamo in gabbia.

La città è deserta, il tragitto surreale. Camminiamo su strade vuote, il percorso è delimitato dal nastro giallo della polizia. Sembra di partecipare a una di quelle maratone cittadine. Appena oltre il nastro giallo, ogni possibile via che interseca il percorso è bloccata da cordoni di agenti, camionette e barricate. E si mantengono a pochi metri dal corteo. Ogni attività commerciale è chiusa, non ci sono bidoni dell’immondizia ne automobili parcheggiate. Le telecamere puntate su di noi non si contano, non si distinguono i giornalisti dagli agenti in borghese.

Siamo in gabbia.

Arriviamo a destinazione, bocca della verità. Qui la situazione è claustrofobica, non esiste alcuna via di uscita. Siamo completamente circondati, non c’è alcuna via di fuga. In qualsiasi direzione ti giri, vedi “forze dell’ordine”. Di camionette ne conto circa 50, barricate e idranti. L’ elicottero è fermo sospeso a bassa quota sulle nostre teste. Se succede qualcosa qui parte la mattanza. Cerco con lo sguardo vie di fuga, punti su cui potersi arrampicare per fuggire, ma niente, assolutamente niente.

Siamo in gabbia.

Ad un certo punto qualcosa accade in fondo alla piazza, nessuno sa cosa, ma la coda del corteo viene accerchiata in breve tempo. Il servizio d’ ordine interno decide di far defluire il resto dei manifestanti fuori dalla piazza, si apre un varco e noi tutti sfiliamo in un corridoio di camionette camminando a pochi centimetri dagli agenti. Qualche centinaio di metri dopo la piazza ci fermiamo.  La situazione è confusa, ci confrontiamo con i ragazzi che conosciamo, ma nessuno capisce quello che sta succedendo e soprattutto nessuno ci sa spiegare perché la seconda metà del corteo, quella che era dietro di noi, è sparita nel nulla.

Siamo in gabbia.

La preoccupazione per i compagni rimasti indietro è tantissima, il senso di colpa per averli involontariamente lasciati soli anche. Evidentemente non siamo gli unici a provare queste sensazioni perché piccoli gruppi di manifestanti di ogni età iniziano lentamente a tornare indietro verso la piazza. Li seguiamo e incitiamo gli altri a fare lo stesso.

Parlando con una ragazza del servizio d’ordine scopriamo che senza alcun reale motivo gli agenti hanno accerchiato e separato la coda del corteo. A quanto pare gli organizzatori della manifestazione sono riusciti a convincere le forze dell’ordine a rilasciare i compagni intrappolati. Li aspettiamo lì osservando con attenzione ogni minimo movimento degli agenti in antisommossa davanti a noi. Di lì a poco i compagni arrivano, forti gli applausi dei solidali.

Poco dopo l’atmosfera si fa meno tesa e il corteo si disperde, ha così termine la manifestazione più violenta a cui abbia mai partecipato. Probabilmente la più violenta negli ultimi anni. La repressione ha raggiunto livelli altissimi sotto l’approvazione silente della popolazione benpensante terrorizzata dalla televisione.

Siamo in gabbia.

Siamo in gabbia perché oggi lo stato italiano ha smesso ufficialmente di essere una democrazia liberale. Qui non si tratta di fare vittimismi o invocare la non-violenza.

Qui si tratta di riconoscere il fatto che lo stato ha gettato via definitivamente la maschera che da anni faticava a nascondere la violenza e lo sfruttamento economico perpetrato dalle classi dirigenti ai danni del resto del paese.

Siamo in un paese dove il dissenso politico è terrorismo, le manifestazioni sono una questione di ordine pubblico, la socialità è un insulto al decoro, la repressione è sicurezza, la sorveglianza è libertà e la violenza immotivata è prevenzione.

Siamo in gabbia».

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