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Si apre a Bari il 'Focus week' sull'anno europeo della lotta alla povertà e all'esclusione sociale Dal 15 al 19 novembre la città sarà aperta a forum, dibattiti e interventi mirati a sconfiggere un male senza età
05 novembre 2010

BARI – Si apre a Bari, dal 15 al 19 novembre, il Focus week sull’anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale.
L’Anno Europeo contro la povertà ha visto aumentare il numero dei poveri in Italia.
L’uscita dalla crisi economica è lenta e faticosa, il potere di acquisto delle famiglie ha continuato a diminuire, la disoccupazione resta sopra l’8% (ma sale al 26% tra i giovani), e il tasso di occupazione femminile non riesce a superare il 50%, con la conseguenza che quasi un milione
e ottocentomila bambini e adolescenti vive in povertà (dati Istat).
A Bari, si discuterà di come sconfiggerla, attraverso strumenti che superino l’assistenzialismo per puntare invece sulle risorse di chi si trova in difficoltà e su servizi pubblici efficaci, nonostante i tagli periodici agli enti locali e ai servizi, e adottando il principio che la non-discriminazione e le pari opportunità sono strumenti imprescindibili.
La focus week conclude il progetto Europa S.p.a–Strumenti di partecipazione attiva per l’Europa del XXI secolo che, con il contributo della Commissione europea DG occupazione e Affari Sociali, ha lavorato negli ultimi due anni per mettere in rete tutti i soggetti (pubblici, del terzo settore e privati) interessati alla lotta contro la povertà e l’esclusione, per:
-Rafforzare la cooperazione tra tutte le parti in causa
-Incoraggiare le istituzioni ad adottare la legislazione europea per le pari opportunità e il Mac (Metodo aperto di coordinamento per l’inclusione)
-Mettere al centro delle politiche del nostro Paese e dell’Ue la lotta contro la povertà e l’esclusione.
Durante la settimana sono previsti una serie di dibattiti e di eventi culturali, che vedranno la partecipazione di amministratori, esperti, esponenti del terzo settore, ricercatori. Tra gli altri, interverranno Nichi Vendola, Francesco Schittulli, Michele Emiliano, D. Maurizio Tarantino, Franco Ferrara, Marina Piazza, Marisa Anconelli, Ennio Triggiani, Giovanni Moro, Pier Virgilio, Dastoli e Giovanni Ferri.

 
-Il programma completo è reperibile sul sito: http://www.cilap.eu
Autore: Q
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I poveri hanno perso la loro la loro attrattiva: sono i più probabili portatori di razionalità, non importa di chi sia la colpa di questo. In un mondo teorizzato come il dominio del consumatore, essi non sono più l'alter ego collettivo del puritano, il Prometeo incatenato che aspetta solo di essere liberato per portare verità, luce e felicità alla società tormentata. Sono interpretati piuttosto come squallide copie del consumatore dominante, sue goffe imitazioni, talvolta tragiche, talvolta grottesche; se liberati, non esisterebbero un attimo a consumare più del consumatore. I poveri che si aggrediscono tra di loro, danno fuoco ai ghetti, mutilano gli altri e danneggiano se stessi con la droga e l'alcool sono altrettanto poco attraenti quanto può esserlo il consumatore in difficoltà; rovistare i negozi anziché incendiarli, e danneggiare se stesso con droghe più raffinate e costose è considerato come il loro unico potenziale non realizzato. In tal modo i ricchi hanno tutta la libertà e l'autonomia che possono sognarsi; le hanno comprate con i loro soldi e le difendono; la frangia che parla sottovoce di “vera libertà” e di autentica autonomia suona quasi incomprensibile alle loro orecchie; se mai li ascoltano, non possono attribuire a tali sussulti altro significato che più beni e ancor meno guai. I poveri, d'altronde, non possono immaginare la libertà e l'autonomia in altro modo che quello di diventare ricchi essi stessi, come dimostrano in modo convincente i pochi fortunati che trovano l'oro (per esempio, vincendo al totocalcio, al superenalotto e al gratta e vinci). Questa è ovviamente, una caricatura della realtà. Una caricatura, ma non uno scherzo.
La domanda “Sono forse io responsabile di mio fratello”?, fino a non molto tempo fa ritenuta quasi superflua e quindi poco ricorrente, è ritornata a gran voce alla ribalta. E coloro che rispondono “si” tentano in tutti i modi, ma senza successo apparente, di rendere questa risposta appetibile nel freddo ed economicistico linguaggio degli interessi. Ciò che dovrebbero fare, piuttosto, è riaffermare con esplicita audacia la ragione etica del welfare state, l'unica di cui ha bisogno per giustificare la propria presenza in una società umana e civilizzata. Non c'è alcuna garanzia che l'argomento dell'etica incida più di tanto in una società in cui la competitività, le stime di costo-beneficio, il profitto e gli altri comandamenti del libero mercato regnano supremi e fanno da principi organizzatori di quello che, secondo Pierre Bourdieu, si appresta a divenire la nostra “ pensèe unique”, la credenza che si pone al di là di tutti gli interrogativi. Ma tale garanzia non può essere trovata da nessuna parte, e dunque l'argomento di ordine etico rappresenta l'unica difensiva dello stato sociale rimasto. Normalmente si misura la tenuta di un ponte a partire dalla solidità del suo pilastro più piccolo. La qualità umana di una società dovrebbe essere misurata a partire dalla qualità della vita dei più deboli tra i suoi membri. E poiché l'essenza di ogni morale è data dalla responsabilità nei confronti dell'umanità degli altri, questa è anche l'unità di misura degli standard morali di una società. A essere sinceri, non esiste alcuna “buona ragione” per la quale dovremmo essere responsabili dei nostri fratelli, prenderci cura di loro, essere morali, né in una società orientata al perseguimento dell'utile, i poveri e gli indolenti (che sono “non funzionali”) possono contare su prove razionali del loro diritto alla felicità. La decisione di misurare la qualità di una società in relazione alla qualità dei suoi standard morali, è ciò che oggi è più importante che mai sostenere.
Niente di nuovo sotto il sole: compassione e difesa dell'ordine si sono sempre mescolati nella costruzione sociale della figura del povero. I poveri sono coloro che non sono nutriti, vestiti e calzati come si deve. Ma sono soprattutto gente con pericolose tendenze criminali, come chiunque non voglia o non possa adeguarsi alla norma. Quel che è nuovo, invece, è che la società contemporanea, a differenza delle precedenti, si rivolge ai suoi membri in quanto consumatori e solo secondariamente come produttori, come è stato in passato. Per essere riconosciuti pienamente come membri attivi della società noi dobbiamo continuare a consumare per mantenere attivo il mercato e scongiurare la minaccia della recessione. E' ovvio che non si può chiedere questo ai poveri, che per via dei loro scarsi redditi e mancanza di prospettive non sono in grado di sostenere un tale impegno. Perciò quel che definisce la povertà, cioè l'anormalità, al giorno d'oggi non è l'occupazione, ma la capacità di consumare. I poveri oggi sono colpevoli di non contribuire al consumo dei beni, non alla loro produzione. Nella società dei consumi i poveri sono un peso morto e una presenza totalmente improduttiva. Così, per la prima volta nella storia i poveri sono diventati un puro e semplice onere sociale, senza alcun merito che possa compensare i loro vizi. Non avendo niente da offrire, non possono ripagare i servizi che ottengono dalla società. I consumatori, cioè gli onesti membri della società, non chiedono né si aspettano nulla da loro. I poveri sono del tutto inutili e nessuno ha bisogno di loro: tolleranza zero. L'unica via attraverso la quale essi potrebbero riemergere dall'oblio e rientrare nell'arena sociale sarebbe quella che conduce al centro commerciale. La riabilitazione (e la libertà condizionata) si ottiene passando l'esame da buon consumatore. Le città sono diventate una discarica dove si accumulano i problemi dell'economia globale.

Alcuni scienziati ritengono che il “sovrappopolamento” sia arrivato a un punto tale da prevedere che in alcune aree del nostro pianeta il tasso di mortalità aumenti finchè le popolazioni non siano in equilibrio con le risorse disponibili. Un aumento della popolazione che nei Paesi sottosviluppati ha raggiunto un ritmo del 2% l'anno con punte del 3% in alcuni Paesi dell'Africa e del 2,8% in alcuni Paesi dell'America Latina farà sì che la popolazione umana aumenti da due miliardi di individui per raggiungere una cifra di 6,2 miliardi di persone. L'80% di questa popolazione sarà concentrato in quelli che vengono chiamati sottosviluppati e in via di sviluppo. Si prevede ad esempio che la popolazione che vive in India avrà un incremento del 120%. Una esplosione demografica di questa portata ha come conseguenza diretta una pressione terribile sulle risorse disponibili provocando un ciclo vizioso di miseria, fame, malattie e un alto indice di mortalità con un conseguente abbassamento dell'età media delle persone. L'aumento della popolazione e l'aumento dei consumi, soprattutto nei Paesi industrializzati, comporta infatti un ricorso più massiccio alle risorse naturali. C'è bisogno di una maggiore quantità di energia e quindi di petrolio, carbone e legna; c'è bisogno di una maggiore quantità di acqua e anche di materiale per costruire case. Le risorse naturali tendono così ad esaurirsi e l'ambiente ad inquinarsi, con tutti i problemi di carattere economico e sociale che ne derivano e che è facile immaginare. Già nel 1798 Thomas Malthus prevedeva che, se la popolazione umana fosse aumentata al di là delle risorse di cibo disponibili, si sarebbero creati arresti improvvisi nella crescita della popolazione. Tali arresti sarebbero stati provocati, secondo Malthus, da guerre, malattie, carestie, ecc.. Uno dei problemi più drammatici del mondo in cui viviamo è certamente quello della fame. -
1° Parte - Qualche tempo fa Ulrich Beck, acuto e perspicace sociologo tedesco, pubblicò un saggio intitolato Schòne neue Arbeitswelt (pubblicato il Italia nel 2000 da Einaudi con il titolo “Il lavoro nell'epoca della fine del lavoro – Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile.). Tesi di fondo di questa importante pubblicazione è che, nello spazio di una decina d'anni, soltanto il 50% della forza lavoro europea potrà vantare un'occupazione regolare e a tempo pieno, pur non godendo certamente, a propria volta, della sicurezza di lungo periodo che i posti di lavoro a tutela sindacale garantivano fino a 25 anni fa. (Come osservato dal noto economista della Sorbona Daniel Cohen, chiunque lavorasse nelle fabbriche della Renault o della Ford poteva contare di rimanervi sino alla fine della vita lavorativa, mentre chi oggi ottiene posti di lavoro, ben remunerati, nelle imprese di Bill Gates, non ha la minima idea di dove si troverà di lì a un anno.) Tutti gli altri sbarcheranno il lunario in stile “brasiliano”: lavori occasionali, di breve durata, senza garanzie contrattuali né diritti pensionistici, ma con la particolarità di poter essere licenziati all'improvviso e ad arbitrio del datore di lavoro. Se Ulrick Beck non si sbaglia (e le sue previsioni trovano ampio riscontro nei fatti e nell'opinione degli intellettuali), se è così, allora, i recenti schemi “dal welfare al workfare” (ossia, dall'assistenza sociale all'inserimento nel lavoro), intesi a rendere lo stato sociale superfluo, in realtà non rappresentano interventi mirati a migliorare le sorti dei poveri e degli svantaggiati, bensì un puro esercizio statistico (anzi, etici), tramite l'elementare espediente di una loro riclassificazione. (continua)
2° Parte - E così, rendere il destino dei poveri ancora peggiore di quanto già non sia fa apparire migliori le sorti di tutti gli altri. Non è una buona notizia per le prospettive della solidarietà con i poveri - quella che nasceva quasi spontaneamente ai tempi in cui, per la maggior parte della popolazione, la fonte di oppressione più grande era rappresentata dalla spossante routine del lavoro di tutti i giorni e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza. Tra la situazione di chi lavorava e quella di chi era povero e disoccupato c'era una stretta, intima correlazione: per gli insiders del mercato del lavoro, guardare alle condizioni degli outsiders non presentava alcuna difficoltà. Se gli uni e gli altri erano poveri, lo erano, sostanzialmente, per le stesse ragioni: le loro sofferenze si distinguevano per grado, più che per qualità. Oggi, al contrario, è ben difficile che nasca empatia con chi “sta sulla strada”, da parte di chi non vive tale condizione. Gli outsiders possono essere infelici, proprio come noi, ma ovviamente noi lo siamo per ragioni diverse: la nostra “povertà” ha carattere del tutto diversi, e non si presta a una traduzione simultanea nella loro condizione. Dopotutto, la nostra società promuove e incoraggia il consumismo e non accetta facilmente sistemi alternativi. Nella nostra società, l'adesione incondizionata ai precetti consumistici è la sola scelta possibile e l'unica che può procurare il certificato di idoneità, cioè di non-esclusione. Così “i poveri sono obbligati a impiegare i loro pochi soldi a risorse nell'acquisto dissennato di oggetti di consumo, invece che in beni necessari, per proteggersi dalla derisione e dall'umiliazione sociale”. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1° Parte. - In quella fase di sviluppo del capitalismo (ormai conclusa da tempo) i tassi di profitto e di crescita erano direttamente proporzionali al volume di lavoro coinvolto nel processo produttivo. Che il mercato capitalista funzionasse con alti e bassi, con periodi di boom a cui seguivano prolungate depressioni, era cosa ben nota; non tutte le potenziali risorse del lavoro, quindi, potevano venire impiegate nel medesimo tempo. Nondimeno, gli inattivi di oggi sarebbero diventati forza lavoro attiva l'indomani. Nel presente erano, temporaneamente, disoccupati: condizione certo normale, ma anche provvisoria ed emendabile. Erano “l'esercito di riserva del lavoro”: il loro status veniva definito in base a ciò che non erano in un dato momento, ma che sarebbero stati pronti a diventare non appena se ne fosse data l'occasione. Come ogni buon generale sa bene, affinchè una nazione non perda la propria potenza militare è necessario che i riservisti siano ben nutriti e si mantengano in buona salute, così da essere pronti ad affrontare le fatiche della vita nell'esercito, quando arriva il loro momento. E giacchè l'epoca di cui parliamo era quella del lavoro e della coscrizione di massa, la nazione poteva avere fiducia nella propria forza alla sola condizione che fosse possibile richiamare ogni suddito, in caso di necessità, nei ranghi dell'industria o nell'esercito. La capacità di lavorare e di combattere dei cittadini rappresentava la condicio sine qua non della sovranità di uno Stato e del benessere dei sudditi. (continua)
2° Parte. - Che il porre i poveri e disabili, gli impoveriti gli indolenti nelle condizioni di “rientrare nei ranghi” in qualsiasi momento fosse un dovere di tutta la società, e un interesse di tutta la nazione, era davvero una convinzione bipartisan, che andava al di là delle distinzioni tra destra e sinistra. Non servivano grandi argomenti per persuadere che il denaro speso per il welfare fosse denaro speso bene. L'epoca del pieno impiego industriale è oggi terminata (per lo meno nella nostra parte del mondo), e altrettanto si può dire per l'esercito di massa. Gli armamenti moderni richiedono pochi soldati professionisti, e il progresso tecnologico nella produzione si traduce in un minore bisogno di investimenti nell'occupazione. Questo comporta un minore numero – e certamente non maggiore – di posti di lavoro. Le borse di tutto il mondo ricompensano prontamente le imprese che operano tagli e licenziamenti, mentre reagiscono nervosamente alla notizia di un calo di disoccupazione. Diciamolo chiaramente: chi tradizionalmente era definito “disoccupato” non rappresenta più “l'esercito di riserva del lavoro”, proprio come i cittadini adulti non sono più riservisti dell'esercito, pronti ad arruolarsi in caso di bisogno militare. Ci prendiamo in giro se ci aspettiamo ancora che il mondo dell'industria richiami le persone che ha reso “esuberanti”. Una simile eventualità si porrebbe in contrasto con tutti gli aspetti che contano per la prosperità economica di oggi: i principi di flessibilità, competitività e produttività a partire dalla diminuzione del costo del lavoro. La verità è che se anche le nuove regole del gioco del mercato promettono la crescita della ricchezza complessiva di un Paese, rendono anche – allo stesso tempo – pressoché inevitabile l'allargamento del divario tra chi partecipa al gioco e chi ne resta escluso. La storia non finisce qui, comunque. -

1°Parte.- Quadrare il cerchio fra crescita economica, società civile e libertà politica è certamente un compito universale, ma sarebbe sconsiderato pensare che tutti perseguono questo obiettivo, o anche solo cerchino di perseguirlo, in questi termini. Per coloro che si impegneranno in questa direzione, l'assunto è che ci si può avvicinare a questo obiettivo senza perdersi nel mercato globale. In primo luogo eliminazione delle rigidità: la flessibilità e la limitazione delle interferenze governative; molti vi includerebbero anche l'alleggerimento del peso fiscale su aziende e individui. Il termine “flessibilità” ha finito per indicare soprattutto allentamento dei vincoli che gravano sul mercato del lavoro: maggior facilità nell'assumere e nel licenziare, possibilità di aumentare e diminuire i salari, espansione degli impieghi part-time e a termine, cambiamento più frequente di lavoro, di azienda e di sede. Gli operai devono essere flessibili, ma il discorso naturalmente vale anche per gli imprenditori: al riguardo si è soliti invocare l'immagine idealizzata dell'imprenditore e della sua “distruttività creativa”. Flessibilità significa anche disponibilità di tutti gli operatori ad accettare i cambiamenti tecnologici e a reagirvi prontamente. In termine di marketing flessibilità è capacità di andare dovunque si offra un'opportunità e di abbandonare ogni posizione in cui le opportunità passate si siano esaurite. Teoricamente restano due scelte: economia a retribuzione basse ed economia ad alta specializzazione. Le economie a retribuzione basse trovano il loro posto nel mercato mondiale vendendo a prezzi più bassi delle altre. I loro prodotti sono più convenienti, ma anche i loro operai sono più poveri. Si sente dire che questa è la sola via al successo. Errore? (segue)
2° Parte.- Anche l'alta specializzazione può creare un vantaggio competitivo: non solo perché essa fa avanzare le frontiere della tecnologia, ma anche perché, a dispetto della computerizzazione, per avere dei prodotti di qualità e per mantenere la qualità dei prodotti occorrono a monte degli operatori specializzati. A un certo punto una persona altamente specializzata costa meno di cinque operatori scarsamente remunerati che producono le stesse cose. In relazione a queste scelte sembra dunque che gli Stati Uniti si stiano muovendo in direzione di retribuzioni basse, mentre il Giappone abbia optato per l'alta specializzazione, che la Gran Bfretagna preferisca le retribuzione basse, mentre la Germania l'alta specializzazione. Un'altra scelta, abbastanza chiaramente legata alla prima, risulta ancora più difficile da spiegare in modo preciso: è quella tra bassa pressione fiscale e bassa retribuzione dei profitti o, in termini più ampi, tra contenimento della pressione fiscale e contributiva, e alti guadagni, da un lato, e una pressione fiscale e contributiva sostenuta abbinata a una bassa distribuzione dei profitti, dall'altro. La questione delle scelte, comunque, non deve distrarci dal punto principale in questione. Le forze della globalizzazione sono potenti dovunque: esse portano con sé una spinta ad aumentare la flessibilità, con tutte le implicazione accennate sopra. A secondo delle scelte si possono togliere mordente a certi effetti o darne di più ad altri, ma una cosa che non possono fare è quella di estraniarsi dal mercato globale. Nemmeno il tentativo di attardarsi in un'età socio-economica ormai superata al fine di perseguire gli obiettivi politici degli ultimi dittatori può durare a lungo, come dimostrano gli esempi della Birmania e di Cuba, e probabilmente tra non molto quello della Corea del Nord.-

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