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Salvemini prima e dopo l’approvazione della “legge Acerbo”
15 giugno 2023

Il 16 marzo 1923 il Gran Consiglio del fascismo nominò una commissione con l’incarico di elaborare un progetto di riforma elettorale per il mese successivo. Ne facevano parte Farinacci e Bianchi. Il ras di Cremona Roberto Farinacci sosteneva il ritorno al sistema uninominale puro, cioè senza ballottaggio. Il segretario del Partito Nazionale Fascista Michele Bianchi, invece, propugnava il sistema maggioritario all’interno di un collegio unico nazionale, proponendo che i due terzi dei 535 seggi complessivi fossero attribuiti alla lista che avesse ottenuto la maggioranza semplice ovvero assoluta e che i seggi restanti venissero distribuiti proporzionalmente alle altre liste. Prevalse questa seconda linea e la nuova legge elettorale, elaborata e proposta da Giacomo Acerbo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, sarà approvata dalla Camera il 21 luglio 1923 e dal Senato il 14 novembre successivo. Nell’àmbito del sistema maggioritario si concedeva un premio di maggioranza alla lista che avesse raccolto il maggior numero di voti superando il 25% del totale. Alla lista vincente andavano i due terzi dei seggi (356), mentre alle liste di minoranza si attribuivano i seggi restanti (179), ripartiti su base proporzionale. Nella prospettiva delle nuove elezioni politiche (che si terranno il 6 aprile 1924) alcuni amici di Gaetano Salvemini tentarono di farlo uscire dalla condizione di studioso appartato in cui versava e di ricondurlo alla ribalta della lotta politica diretta. Uno di questi fu Giuseppe Patruno di Canosa di Puglia, già segretario nazionale del Partito Socialista Riformista, in carica dal 1920, ma poi in disaccordo con Ivanoe Bonomi e quindi dimissionario. Salvemini incontrò Patruno a Roma il 1° maggio 1923 e si trattenne in cordiale colloquio con lui, come risulta da una pagina diaristica di Memorie e soliloqui. Patruno gli parlò della grande popolarità che l’ex deputato ancora godeva fra i contadini pugliesi, chiedendogli se veramente avesse rinunciato per sempre alla vita pubblica. Salvemini gli rispose che avrebbe dato il proprio nome a una lotta elettorale, solo se si fossero verificate tre ipotesi: 1) che, caduto Mussolini, si formasse un governo che egli potesse appoggiare come candidato governativo; 2) che la lista fosse formata da candidati a lui graditi; 3) che dovesse soltanto dare il nome e scrivere una lettera agli elet-tori, lasciando la propaganda attiva a quanti lo volevano deputato. A rivelare una maggiore insistenza per una eventuale futura candidatura salveminiana fu l’amico e seguace molfettese Giacinto Panunzio. Salvemini, che era rimasto scottato dalla condotta di certi rappresentanti del combattentismo e in particolare dallo «scandalo del pecorino », il quale aveva invischiato il deputato barese Nicola Favia per aver fatto distribuire 200 quintali di formaggio di contrabbando alle cooperative dei combattenti che lo avevano sostenuto politicamente, rispondendo al devoto Panunzio, da Firenze l’11 maggio 1923 gli scrisse: «Quanto ad accettare una candidatura, bisognerebbe vedere se, come e quando. Accetterei solamente se si realizzassero insieme le seguenti ipotesi: a) che si formasse un governo […] il quale chiamasse in aiuto della baracca tutti gli uomini di buona volontà e di buona fede. Non ho più voglia di stare a fare sempre opposizione. Se posso realizzare almeno una parte delle mie idee, mi metto allo sbaraglio; se no me ne sto a casa a scrivere libri; b) che la lista dei candidati sia fatta come voglio io, con persone accettate da me; il caso Favia mi ha erudito abbastanza; c) che tutta la mia campagna elettorale debba ridursi a scrivere una lettera agli elettori: io non intendo andare più per le strade ammazzandomi in urli per raccattar voti; verrei dopo le elezioni a ringraziare, e tornerei un mese all’anno per propaganda; d) che fossi esplicitamente autorizzato a non occuparmi né di lotte amministrative, né di scioperi, né di cooperative o generi simili: vorrei fare il deputato e niente altro. A questi patti non mi sentirei il diritto di rifiutare. Ma chi vuoi che accetti questi patti? Dunque, inutile parlarne. Sto bene a casa mia a studiare, e non mi muovo. […] E a fine luglio me ne torno in Inghilterra, e ci resto a far lezioni fino a tutto dicembre. Così il periodo elettorale – che cadrà in novembre, credo – mi troverà uccel di bosco». In effetti Salvemini, vistosi negato il passaporto da un gerarca del fascio di Firenze per ordine di Mussolini, varcherà clandestinamente la frontiera con la Francia e il 26 luglio 1923 sarà a Modane e il 28 a Parigi, per sbarcare in agosto con un passaporto surrettizio in Inghilterra. Qui, dopo essere stato nella rivierasca Brighton tra agosto e settembre, in autunno terrà una serie di conferenze su “La politica estera italiana dal 1871 al 1915” al King’s College di Londra, uno dei più prestigiosi atenei del mondo. Nel frattempo, però, Panunzio non si era affatto arreso e il 6 luglio 1923 era tornato alla carica, mettendo avanti, in una lettera insieme affettuosa e deferente, l’ammirazione degli emigrati molfettesi in Argentina per Salvemini: «Carissimo Professore, anzi che voi partiate per Londra, vi giunga questo mio fedele vibrante saluto di affetto, che condensa non solo l’anima mia fiammea ma quella altresì di numerosi seguaci ed ammiratori e sovra tutto le anime di autentici lavoratori emigrati, che vi ricordano e vi amano… Or ora ricevo da Vincenzino Spadavecchia (Buenos Aires) un letterone commovente, che è un inno al Socialismo ed a voi, scritto a nome e per espresso incarico dei moltissimi emigrati di colà. Inviano 3.000 (dico tremila!!!) lire pro vittime del Fascismo in terra di Bari, raccolte in appositi comizi. Vogliono una vostra parola. Potete farlo anche a mezzo mio con un fogliettino. Fanno cortei con bandiere rosse e al canto dei nostri inni tutti i giorni e vi prendon parte anche i sindacati fascisti (molfettesi; tranesi; siciliani) che, appena giunti a Buenos [Aires], buttano il distintivo sindacal-fascista e si raccolgono sotto i nostri vessilli. Ad una lettera di qui, sollecitante un concorso in denari pro-feste patronali, i molfettesi hanno risposto pic-che all’unanimità. Parlano sempre del… 1913. Professore mio, Maestro mio, la coscienza per quanto rozza, per quanto elementare e pressoché istintiva, la coscienza esiste, esiste, esiste… In pochi, tenaci, puri, puliti tra l’infuriare della camorra politica, tra i saturnali del più impudente arrivismo, in pochi siamo riusciti a educare le nostre masse, a tenerle su, sia pure con la sola forza morale dell’esempio […] È il caso vostro, mio amato, nostro adorato Salvemini. Io e pochissimi altri stiamo nella mischia: la mischia dell’azione, la battaglia del giorno per giorno, fatti segno […] a quotidiane minacce, a quotidiani ricatti, a frequenti blandizie e lusinghe più offensive e disgustose delle minacce […] È quasi un mese che vi dovevo una risposta: concordata. È così brutta che non ho mai avuto cuore di farlo: la rinunzia alla lotta elettorale nel vostro nome, se insistete a non inquadrarvi in una lista socialista. Insisterete?… Voi siete, ripeto, adorato come e forse più che nel ’13 (ve lo sto scrivendo da anni, diecine e diecine di volte) ma non riuscite a prendere atto che, salvo pochissimi che siamo all’altezza di comprendere le nuances del vostro pensiero critico, il grosso vi conosce, vi ama e vi vota come: Gaetano Salvemini e come socialista. E questo è lo stato d’animo della massa. Non dunque come Gaetano Salvemini soltanto. Speriamo ancora… Come siete duro!!». Salvemini, pur mantenendo il suo distacco dalla lotta in prima linea, non rimaneva del tutto insensibile ai tentativi di coinvolgimento di Panunzio e il 9 luglio seguente, ribadendogli che a Molfetta e in Terra di Bari mancava la gerarchia intermedia per inquadrare le masse popolari nelle votazioni, da Firenze gli rispondeva: «Carissimo Giacinto, grazie della tua lettera affettuosa. Quanto mi hai scritto dei lontani amici d’America mi ha profondamente commosso. Sì, gli operai e i contadini sono sempre terreno sicuro: nulla di quel che seminammo, è caduto in luogo sterile. Ma occorrono caporali e sergenti per mettere insieme i soldati: e per noi, appena si arriva ai caporali ed ai sergenti – cioè alla piccola borghesia – comincia la tragedia; quando, poi, si arriva ai capitani e ai maggiori, il disastro diventa irreparabile.La nuova riforma elettorale, se passerà, farà delle elezioni una burletta. E io non vedo perché noi ci si debba interessare di simile burletta. Crederei più dignitosa l’astensione assoluta: lasciare che tutti i 535 deputati siano fascisti, e si mangino tra loro, fino allo sfacelo. […] Quanto a me, che vuoi che ti dica? Se sono riuscito ad avere un’influenza su uomini come te, lo debbo alla mia rigidità feroce. Una sola volta, in vita mia, ho voluto transigere; e subito me ne pentii amaramente: caso Favia! Come volete che io m’inquadri in una lista socialista? L’«Avanti!» lo leggete? È così stupido che fa spavento. Per andare con [Arturo] Vella dovrei dichiararmi massimalista e rivoluzionario: ti parrebbe serio ciò? Mentire così, per essere deputato, nelle condizioni attuali? Ad quid perditio haec? Come metodo, andrei coi socialisti unitari, certo. Ma tu sai che cosa è in provincia di Bari il socialismo unitario! Accetterei la candidatura di questo partito, solamente se i nomi della lista mi riuscissero graditi […] Ma – ripeto – finché la legge elettorale nuova non sia fatta, è il caso di sospendere ogni decisione. Possono darsi situazioni imprevedute, in cui io possa essere utile senza dovermi diminuire. E in questo caso, non rifiuterò di fare il mio dovere!». In fondo, tuttavia, la scelta fondamentale di stare in disparte e dedicarsi agli studi Salvemini l’aveva già fatta nel 1920 e la sua distanza dalle battaglie politiche sul campo restava al momento incolmabile, come risulta anche da una lettera del 29 dicembre 1923 da Firenze allo stesso Panunzio: « Io continuo nella mia vita solita, senza desideri e senza paure. Lavoro molto per conto mio, e sono contento. Finché questa vita mi sarà possibile, resto in Italia. Quando non mi sarà più possibile, me ne andrò via». Il pensiero dell’esilio e la prospettiva del fuoruscitismo erano già vive in lui. © Riproduzione riservata

Autore: Marco Ignazio de Santis
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