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Salvemini dopo il discorso del “bivacco” di Mussolini Frammenti di storia
15 dicembre 2022

Dopo la “marcia su Roma”, Benito Mussolini il 31 ottobre 1922 formò un governo di coalizione, nel quale, accanto ai fascisti e ai nazionalisti, entrarono liberali, popolari, demosociali e rappresentanti dell’esercito, come il generale Armando Diaz e l’ammiraglio Paolo Thaon de Revel. All’opposizione si collocarono i comunisti, i repubblicani e i socialisti, divisi in massimalisti del Psi e socialisti di destra del nuovo Partito Socialista Unitario (Psu). Il trentanovenne Mussolini il 16 novembre, leggendo il discorso di presentazione del nuovo governo alla Camera, dichiarò senza mezzi termini: «Signori, quello che io compio oggi, in questa Aula è un atto di formale deferenza verso di voi […] Ora è accaduto per la seconda volta, nel breve volgere di un decennio, che il popolo italiano – nella sua parte migliore – ha scavalcato un Ministero e si è dato un Governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento. […] Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo, il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle “camicie nere”, inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione. Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non vi abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli…» A queste parole vi furono applausi a destra e subbuglio a sinistra. Il socialista unitario Giuseppe Emanuele Modigliani urlò ripetutamente: «Viva il Parlamento!». I socialisti del Psu approvarono vivamente, suscitando sia il disappunto dei comunisti e di vari socialisti massimalisti per la loro pregiudiziale antiparlamentare, sia la reazione aggressiva dei fascisti, che tornarono ai propri posti solo dopo l’intervento dei questori della Camera. Poi Mussolini proseguì: «Potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto. […] Ho costituito un Governo di coalizione e non già con l’intento di avere una maggioranza par-lamentare, della quale posso oggi fare benissimo a meno». A questo punto fascisti, nazionalisti e comunisti applaudirono, sia pure con motivazioni diverse, ma la maggioranza dei deputati ammutolì senza reagire a un’affermazione di tale brutale arroganza. Tributato un omaggio al re d’Italia e delineato il programma della politica estera con una presenza italiana a fianco di Parigi e di Londra nel rispetto dei trattati di pace e nella difesa degli interessi nazionali, Mussolini enunciò un programma di politica interna decisamente striminzito, ma ammiccante alla destra e al centro parlamentare: «Le direttive di politica interna si riassumono in queste parole: economie, lavoro, disciplina. Il problema finanziario è fondamentale: bisogna arrivare colla maggiore celerità possibile al pareggio del bilancio statale». Poi aggiunse calcando la voce: «Io non voglio fin che mi sarà possibile, governare contro la Camera: ma la Camera deve sentire la sua particolare posizione che la rende passibile di scioglimento fra due giorni o fra due anni. […] Chiediamo i pieni poteri perchè vogliamo assumere le piene responsabilità». Il giorno dopo, venerdì 17 novembre, un’autorevole protesta al discorso del “bivacco” fu quella di Filippo Turati. Il leader socialista unitario fu interrotto più volte da Mussolini e dal fascista Francesco Giunta, il quale annunciò che le future elezioni le avrebbero fatte «col manganello», suscitando le proteste del socialista Luigi Salvadori, che abbandonò l’aula. Imperterrito, Giunta più in là apostrofò Turati «vecchia baldracca del socialismo». Dichiarando l’opposizione del Psu al Governo, Turati, pur in un intervento prolisso e infarcito di citazioni letterarie, accusò Mussolini di aver «parlato col frustino in mano, come nel circo un domatore di belve», «tra la distrazione » del presidente della Camera Enrico De Nicola, mentre il Parlamento aveva offerto «lo spettacolo delle groppe offerte allo scudiscio e del ringraziamento di plausi ad ogni nerbata». E aggiunse: «Con quel metodo rivoluzionario, che oggi si dice “fascistico” […] la Camera non è chiamata a discutere e a deliberare la fiducia; è chiamata a darla; e, se non la dà, il Governo se la prende. È insomma la marcia su Roma […] la quale prosegue, in redingote inappuntabile, dentro il Parlamento. […] Il che significa […] che, nel pensiero del Governo, ma anche con l’acquiescienza del voto che vi apprestate fra qualche ora a concedere, il Parlamento italiano ha cessato di esistere… […] non esiste più la bassa Camera elettiva. Peggio ancora, onorevoli colleghi, esiste la sua maschera, esiste il suo cadavere, esiste la sua parodia. Così è, onorevole Mussolini, che voi – che potevate – non avete voluto stravincere. E ve ne siete fatto vanto di saggezza. Potevate, diceste, “sprangare il Parlamento”, potevate “in quest’Aula grigia e sorda fare il bivacco dei manipoli”: l’onorevole De Nicola poteva esserne nominato vivandiere. […] Ora, che fiducia può accordare una Camera in queste condizioni? Una Camera di morti, di imbalsamati, come già fu diagnosticata dai medici del quarto potere?». Dopo Turati fu il turno di Ludovico D’Aragona, che aveva presentato un ordine del giorno non per essere «la voce di un partito politico, ma l’espressione e il desiderio del movimento sindacale che fa capo alla Confederazione generale del lavoro, che ora vuole essere voce libera ed indipendente da ogni partito politico». Mussolini commentò l’ultima frase con un significativo: «Finalmente!». D’Aragona il 26 maggio 1922 si era incontrato con Gabriele d’Annunzio in un tentativo ambiguo e inutile di ricucire l’unità sindacale in funzione antifascista con i sindacalisti rivoluzionari e il Vate. Nell’ottobre del ’22 aveva poi aderito al Psu, anche se la Confederazione Generale del Lavoro il 6 dello stesso mese aveva denunciato il patto di alleanza col partito socialista. Benché vincolato al Psu in Parlamento, D’Aragona stava facendo per sé e la direzione confede- rale un tentativo per limitare i danni che il nuovo contesto politico stava arrecando e avrebbe potuto ancora arrecare al movimento operaio organizzato, praticamente scendendo a patti col fascismo. In una Camera, espressione – secondo Turati – di «molti interessi personali, e di gruppi, e di camarille» impauriti dalle minacce mussoliniane di ricorrere a nuove elezioni, una larghissima maggioranza di deputati non fascisti votò la fiducia a Mussolini, che raccolse 306 voti favorevoli, 7 astensioni e 116 voti contrari. Votarono contro i socialisti unitari e massimalisti, i comunisti, i repubblicani, i sardisti e i democratici di Giovanni Amendola. Si astennero i deputati delle minoranze tedesca e slava. Votarono a favore, oltre ai 35 fascisti e ai 10 nazionalisti, i popolari, i liberali e i democratici di correnti diverse. Tra gli altri, accordarono la fiducia a Mussolini anche esponenti liberali e popolari come Giovanni Giolitti, Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra, Ivanoe Bonomi, Filippo Meda, Alcide De Gasperi e Giovanni Gronchi, del resto nominato sottosegretario per l’industria e commercio. Curiosamente Giolitti, favorito nel subentro a Facta prima della “marcia su Roma”, all’invito di Modigliani nei corridoi di Montecitorio di prendere le difese del Parlamento, affermò che il Parlamento aveva il Governo che si meritava: considerando che i deputati non avevano saputo creare un ministero efficiente, l’Italia se l’era dato da sé. Prima della “marcia su Roma” e del discorso di Mussolini, Gaetano Salvemini aveva passato tre mesi all’estero. Dal 20 agosto al 25 ottobre era stato in Inghilterra per impratichirsi nell’inglese, conoscere l’ambiente e tenere conferenze. Dal 26 ottobre al 16 novembre si era fermato a Parigi con la moglie Fernande Dauriac. Il 17 novembre Salvemini era tornato a Firenze senza Fernande e il giorno dopo iniziò a scrivere un diario (da lui stesso alla fine intitolato Memorie e soliloqui) per sfogare la sua «elettricità» con se stesso, anziché «farla esplodere in pubblico». Il 18 novembre, appunto, basandosi sui resoconti giornalistici e cogliendo soltanto gli elementi a suo avviso negativi dell’intervento parlamentare di Turati, stilò un commento di impietosa severità: «[…] Era già inaudito che i socialisti si lasciassero dire da Mussolini le insolenze brutali, con cui costui si presentò alla Camera. […] Era inaudito che non si levassero tutti in piedi, ed abbandonassero la Camera, mandando le loro dimissioni dopo le prime insolenze mussoliniane. […] Ma il discorso di Turati supera ogni limite di abiezione intellettuale e morale. Quel miserabile vecchio rammollito non ha avuto un solo momento di vigore e di dignità in un’ora e mezza di verbiage disgustoso. Si era preparato il discorso come ci si prepara un componimento o una conferenza per signore: infiorandolo di preziosità stilistiche, di doppi sensi, di motti di spirito, di ironie maccheroniche. Non ha sentito nulla del disastro morale, in cui è precipitata l’Italia. Ha visto solo una occasione per un “successo parlamentare”. Non ha osato neanche definire i fatti di ottobre per quello che sono: un colpo di stato militare. […] Ha fatto una frase dicendo che il Parlamento è morto nei fatti d’ottobre. La verità è che il Parlamento era malato da molti anni, fino da quando Giolitti faceva le elezioni nel Mezzogiorno a furia di bastonate e di brogli inauditi, e Turati trovava che faceva benissimo ed era giolittiano. Avendo per dodici anni, dal 1902 al 1913, lasciato a Giolitti mano libera nel Mezzogiorno, a patto che Giolitti non toccasse lui e i suoi amici nel Nord, Turati teneva mano al discredito delle istituzioni elettive nella coscienza del paese. […] Dunque il problema della libertà elettorale non lo ha mai sentito. Comincia ad avvedersene oggi, perché teme di non essere rieletto per la violenza fascista. E in fondo è sempre disposto a dimenticare le bastonate, se Mussolini mette giudizio e si adatta al compromesso con lui. Tutto questo è orribile. E in fondo Mussolini vale assai più di Turati e di tutti gli altri deputati socialisti». Nel suo diario Salvemini non risparmiò nemmeno D’Aragona: «Dopo quest’ignobile discorso, ha preso la parola anche D’Aragona, che Mussolini si era rifiutato di ricevere alcuni giorni or sono. E ha fatto sapere che la Confederazione del lavoro è ora svincolata da ogni partito politico, motivo per cui, avendo messo giudizio, può essere risparmiata; il movimento sindacale vuole mantenersi nell’orbita delle leggi; non si devono impedire i rapporti internazionali dei sindacati, perché questi servono a dare “sicuro vantaggio economico e morale” agli emigranti, il che “aumenta il prestigio del paese all’estero”: dunque l’internazionalismo è un espediente nazionalista o quasi!: e “segnala le tristi condizioni degli operai disoccupati e confida che nelle economie non si turberanno le assegnazioni fatte per lenire la disoccupazione”. Amen, amen, amen. Se Mussolini stanzia un centinaio di milioni per i disoccupati, – cioè non tutti i disoccupati, ma i soli disoccupati delle sezioni più forti della Confederazione: metallurgici, edili, cooperatori emiliani – tutta la Confederazione si getta ai suoi piedi». Tra quelli che a Molfetta erano impensieriti per l’involuzione politica italiana c’era il trentatreenne salveminiano Giacinto Panunzio, spiritualmente smarrito, preoccupato per le propensioni fasciste del trentaseienne fratello Sergio e sempre desideroso di notizie del suo Maestro. Ultimamente aveva ottenuto informazioni, oltre che da Francesco Picca, grande amico di Salvemini, anche da sua nipote Gaetana Anna Picca (1894-1944), detta Nella, figlia dell’avv. Giuseppe Picca e di Maria Valente. Su tale base, il 16 novembre Panunzio scrisse una lettera di questo tenore: «Carissimo Professore, non vi ho scritto prima d’ora perché ignoravo il Vs. attuale indirizzo, avendomi detto Nella Picca che le avevate scritto da Parigi e nulla di voi da qualche tempo leggendo sui giornali e dai giornali. Ciccillo Picca mi dice che siete tuttora a Londra. A quando il ritorno? E conferenze perché tenerne agli inglesi più che a noi poveri italiani, che tanto ne abbisognamo? O Salvemini, io comprendo il vostro stato d’animo […] scettico ed aspro nei confronti dell’italiano dei nostri miserabili giorni. Ed anch’io sono desolato da questo avvilente spettacolo di deficienza per non dire di assenza del carattere in questa vanitosa ma scema Italia di oggi. Ma intanto che facciamo? Non è forse sterile appartarsi od allontanarsi? Non è forse meglio il poco che il nulla? […] Professore mio, ho proprio bisogno di sentire una vostra parola, un vostro consiglio. Io da me non so più trovar la via. […] Non ho che Voi, adorato Maestro, avendo perduto papà che mi confortava con la sua esperienza e vedendo mio fratello Sergio (per quanto in buonissima fede) in campo avverso. Chissà che non vada a finire candidato coi fascisti? Egli mi scrive che tiene duro, ma… È un giovane di fede e che studia, ma ha (non so come) la fisima del Mediterraneo… e dell’ordine… Tornando a noi, vi prego di farmi un po’ di luce perché sento che vado verso l’agnosticismo ed io senza una fede non saprei più vivere, non so vivere». Salvemini da Firenze il 22 novembre rispose a Panunzio con una lunga lettera, da far leggere anche al comune amico Francesco Picca: «Caro Giacinto, nell’ottobre scorso abbiamo avuto in Italia “un colpo di stato militare dissimulato sotto la maschera di una pseudo-rivoluzione civile”. Il movimento fascista, dopo essere stato antisovversivo nel 1919-20, è diventato antiparlamentare nel 1921-22. E deve sfociare, in un modo o in un altro, nella soppressione del suffragio universale: la lotta contro la proporzionale è il primo passo […] Che cosa dobbiamo fare noi? Se ci fosse un movimento di opposizione socialista, in cui potessimo aver fede, il nostro posto sarebbe segnato. Ma questo movimento non c’è. I rivoluzionari comunisti sono rimasticatori di frasi fatte, e buoni a nulla. Il giorno in cui sentiranno venir meno il giogo fascista, riprenderanno coraggio per cianciare di rivoluzione: ma le masse contadine ed operaie, maltrattate dai fascisti, si scateneranno a far vendette sanguinose; e questo disordine di vendette sarà chiamato bolscevismo dai pappagalli serratiani; sarà chiamato bolscevismo dalla borghesia impaurita; sarà chiamato bolscevismo all’estero […] Ma metterci con questa gente, no, come non possiamo metterci con i fascisti. Quanto agli unitari, io credo che chi si sente lo stomaco forte abbastanza per mettersi in quella compagnia, e chi spera di trascinarli su una nuova via, faccia bene ad entrare in quel partito [il Psu]. Io non ho quello stomaco e non ho quella speranza. Il discorso di Turati è stato abbietto; quello di D’Aragona anche peggiore. Quella gente non domanda che di vendersi a Mussolini, come si era venduta a Giolitti. Si duole di essere stata bastonata, ma è pronta a dimenticare le bastonate, non appena Mussolini offra un po’ di lavori pubblici ai disoccupati, cioè alle cooperative. Che cosa mai sperare da quella gente là? Certo ci sarebbe da fare un lavoro: entrare nel Partito socialista unitario, e rimanere fuori a combattere Turati e D’Aragona. Mussolini li ha demoliti tutti per metà dalla destra, demolire l’altra metà dalla sinistra. Ma io non mi sento di fare questo lavoro; ho 50 anni; sono stanco; per 20 anni sono stato sempre solo; sono sicuro di trovarmi solo anche questa volta. […] Lasciamo che, nell’ora della crisi, l’ufficio di spazzar via Turati e D’Aragona lo compia Serrati. L’ora nostra verrà dopo. E allora che fare? Io per conto mio intendo tacere ed aspettare. Quel che potrei dire oggi, l’ho sempre detto. […] Quanto a te e agli altri amici, entrate, se ne avete lo stomaco, nel Partito socialista unitario a fare l’opposizione a Turati e D’Aragona. Se ci sarà in Italia un gruppo di uomini, che garantisca 60.000 lire per un settimanale, riprendo “L’Unità” nel 1924. Se no, me ne sto zitto come un frate trappista. Non posso per tutta la vita fare il profeta del malaugurio, a cui tutti danno ragione dieci anni dopo, quando non serve più a nulla. Candidature? Elezioni? Non avete ancora capito che nelle prossime elezioni saranno eletti solamente i candidati accetti alle prefetture? Siete ancora così ingenui da credere alle elezioni? Se ci fosse in Italia un movimento socialista serio, i deputati avrebbero dovuto alzarsi tutti in piedi, dopo i primi periodi del discorso di Mussolini, e dimettersi in massa, e dichiarare l’astensione dalle prossime elezioni se fosse stata modificata la legge elettorale illegalmente e se non fosse stata garantita la libertà di propaganda e di voto. Se fossi stato deputato, mi sarei dimesso io solo, insultando ferocemente non Mussolini, ma i socialisti. E non mi sarei presentato alle elezioni. Come vuoi che mi presenti ora? E chi voterebbe per me? Togliti, caro Giacinto, queste fisime dalla testa. Al punto, cui sono giunte le cose, c’è ben altro da fare che pensare alle elezioni. Siamo oramai trascinati tutti in un ciclone, di cui non possiamo prevedere né la direzione né i risultati. Altro che elezioni! Avverrà una rottura tra D’Annunzio e Mussolini? In questo caso chi vincerà? Mussolini accentuerà sempre più il carattere dispotico del regime facendo dei fascisti una nuova guardia regia, o si butterà a sinistra ascoltando il vieni meco di D’Aragona e di Turati? […] Non possiamo prevederlo. Possiamo solo dire, se abbiamo o no fiducia in Mussolini. Io non ho fiducia. Ma non ho fiducia neanche in quelli che non hanno fiducia: sieno serratiani, sieno turatiani. E non mi sento di mettermi all’opposizione dell’opposizione, di essere minoranza nella minoranza. Ho fatto questo lavoro per vent’anni. Basta. Mi sono messo in pensione. Se mai vedrò sorgere un gruppo di uomini, che accetti le mie idee e dia prova di voler lavorare sul serio per esse, mi metterò con loro a costruire. Ma da me solo non posso costruire. E mi sento solo. Ecco tutto. Fa leggere a Ciccillo Picca. Ti abbraccio». Va chiarito che il riferimento di Salvemini alle candidature e alle future elezioni si spiega con un invito a presentarsi candidato rivoltogli due mesi prima da sostenitori molfettesi, come Salvemini faceva sapere a Ernesto Rossi da Leeds, nell’Inghilterra settentrionale, il 24 settembre 1922: «Mi hanno scritto da Molfetta per le prossime elezioni in vista di una candidatura: ho rifiutato. Mi chiuderei in galera. Alla Camera no, no, no. Non è aria per me. Preferirei suicidarmi». Pur non facendo mancare il suo consiglio e conforto agli amici molfettesi con la risposta di novembre a Panunzio, in quel periodo così nefasto per l’Italia Salvemini avvertiva tutto intero il peso della solitudine nella sfera dell’azione politica. Nella resa senza condizioni del regime liberale al fascismo, il suo era un isolamento disperato. © Riproduzione riservata

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