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Rosa Campanale Donne della mia città
15 luglio 2018

Donne della mia città di Rosa Campanale è un libro che si affronta subito con simpatia, a partire dalla bella copertina di Marisa Carabellese, con quel volto di donna dolcissimo con lo sguardo risoluto e fermo. La frase “La mia vita è un romanzo” con cui alcune di queste donne sintetizzano la loro esperienza non evoca vicende romantico-sentimentali, ma al contrario storie di vita travagliata e dura, senza evasioni, con piena responsabilità del proprio vissuto, fin nei minimi particolari. Vite nel solco di una tradizione che per prima cosa confinava la donna nel silenzio. Quel diritto ai propri sentimenti e alla loro espressione che l’opera lirica ha stanato dai loggioni del teatro lirico nell’Italia settentrionale tra donne che lavoravano fuori di casa, soprattutto come operaie, ha fatto fatica a trovare spazio al Sud tra donne in gran parte casalinghe, eroine di “virtù scomparse e misconosciute” fondate sulla capacità di “resistere” come soldati in trincea senza cedere allo sconforto. La bellezza del libro sta nell’aver persuaso a raccontare persone che neanche immaginavano le seduzioni del racconto letterario ma semplicemente testimoniavano il loro vissuto. Non occorreva giurare di “dire la verità e soltanto la verità, nient’altro che la verità, senza aggiunte o omissioni” semplicemente perché l’atto stesso del dire era la voce della vita mai prima di allora non solo detta ma neppure ascoltata dentro di sé. Straordinaria è l’attenzione a particolari della vita che la gente colta considera trascurabili, e assumono invece il valore di quella “rassegnazione senza troppo drammatizzare” che fa non solo sopportare ma amare la vita pur nella minorazione. I ricordi sono “belli e brutti” e tutti vengono conservati perché è tutta vita e non sarebbe giusto decurtarla di tanta parte, forse la maggior parte, che però ha dato anche qualche frutto buono, i figli soprattutto, i nipoti, la famiglia. Queste donne neppure si concepiscono senza la famiglia per cui sono vissute. Non sono valori solo nel Sud o in zone appartate. Anche nell’evoluto Nord industrializzato ci sono donne che, se le interroghi sulla loro vita, ti parlano di figli e di nipoti, e trascurano ciò che le riguarda anche se affermate nella vita sociale. La “famiglia” come valore fu posta come un fardello sulle spalle delle donne chiamate a garantirla perché gli uomini possano fruirne, ma proprio la semplice presa di coscienza di queste donne che non conoscono retorica dice la sostanza drammatica e dolente di questo valore tanto spesso decantato ma poco difeso. La “famiglia” è il luogo di queste donne, l’ultima linea della loro resistenza: quel che c’è di nuovo è che ora vogliono parlarne: dell’alto prezzo pagato e delle poche gioie raccolte, di come invecchiano in essa e per essa. Sono sempre umili collaboratrici dei loro uomini a cui riconoscono un primato nel ruolo ma hanno la dignità dell’operaia indispensabile. La “parità dei diritti” si fa strada non dall’alto giuridico ma dall’esperienza di vita che non può farne a meno senza contrarsi, soffocata proprio nell’amore che non trova complicità col partner e libertà di espandersi. Anche loro sanno farsi carico economicamente delle necessità della famiglia e si mostrano dotate di iniziativa e di fantasia. Quello che non ricevono dai loro compagni è un sentimento della famiglia positivo e coraggioso, qualcosa da amare, non da subire. “Oggi l’esperienza di Teresa non può interessare nessuno” si legge a un certo punto. Mi permetto di dubitarne, proprio la prospettiva storica che storie come queste ci proiettano nella mente ci convincono della grande serietà delle donne consapevoli che la loro “liberazione” da pregiudizi e stereotipi è solo all’inizio. Sanno di essere sole perché i loro uomini non si preoccupano di conoscerle, le danno per scontate e risapute. L’arte ha indovinato talvolta personaggi simili, la realtà è molto più arretrata. Sconfitte, conservano la fierezza per la prossima occasione perché la vita è vita fino all’ultimo giorno. Non ci sono tra queste donne quelle (e sono molte) che sfidano i loro uomini comportandosi proprio come loro le giudicano, sono tutte persone serie, rispettose di sé e degli altri. Se i loro uomini non sono ancora in grado di amarle esigono almeno il riconoscimento di un ruolo di collaboratrici decisive di un progetto comune di vita. Si guadagnano il rispetto sul campo con la loro fierezza e serietà. Questo si può dire un bel libro perché fa pensare, riflettere sui valori a cui, come diceva Goethe, bisogna “tenersi saldi” in tempi turbati e difficili come il nostro. Non ultimo pregio è l’ambientazione di tutte le storie a Molfetta, non in un universo generico ed egualitario ma in un preciso luogo della nostra Puglia, dai connotati ben riconoscibili, con fisionomie che pur nel loro anonimato hanno la vicinanza di incontri familiari, prospettano un’agnizione sempre possibile tra concittadini uniti dalle stesse usanze e tradizioni. Assomigliarsi è già un riconoscersi, il primo atto di un volersi bene a cui questo libro invita i vicini se non a questo a un loro mondo così simile a questo. Forse tutto il mondo è Molfetta ovunque ci sono donne responsabili, belle della loro fierezza. Il libro può essere acquistato alla libreria “Il Ghigno” di Molfetta. © Riproduzione riservata

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