Abbiamo il dovere di leggere almeno in un secondo senso tutto ciò che il medioevo ha prodotto e, se sembra che dobbiamo appiattirci sul senso letterale, possiamo avere il sospetto di non avere trovato la chiave per quel testo o quella fi gurazione. All’individuazione di quel grimaldello, che schiudesse orizzonti inattesi senza nulla sacrifi care della feconda polisemia delle opere esaminate (soprattutto della tanto amata Commedia dantesca), il prof. Antonio Balsamo ha consacrato la sua originalissima attività di studioso. Il 28 giugno, questo illustre collaboratore di “Quindici” ha intrapreso il viaggio verso altri lidi, nei quali gli auguriamo, con aff etto, di appagare quel desiderio di bellezza, quell’attitudine alla “meraviglia” che gli erano connaturati. Un intellettuale che avrebbe meritato maggiori riconoscimenti, se la miopia non fosse stata male endemico nel bel mondo accademico e nell’industria culturale. A intuirne la levatura è stato il mondo della scuola, non quella dei ministri e dei sedicenti – Balsamo avrebbe preferito “secredenti” – pedagogisti (il vero valore non saprebbero scorgerlo neppure se dotati di una fornitura perpetua di diogeniani lanternini), ma la concreta pratica delle aule, gli studenti, che hanno ammirato questo docente imbevuto di doctrina per nulla pedante, dal quale accoglievano anche valutazioni prossime alle “zero” con quella serena accettazione che saluta il giudizio di una mente superiore. Ripercorreremo rapidamente i principali snodi della ricerca del prof. Balsamo. Il primo è la storia locale, rinsaldata alle vicende nazionali. Si collocano in quest’ambito L’Università popolare nella vita della città, scritto in collaborazione con il compianto Giovanni de Gennaro (anch’egli illustre collaboratore di “Quindici”) in occasione del centenario della U.P.M., e la recente pubblicazione La “piccola italiana”: nella scuola del Duce a Molfetta. È un’attenta disamina di cinque quaderni, riconducibili a tre studentesse (Angela, Anna, Maria) che frequentavano la scuola elementare tra il 1938 e il 1940. Balsamo non si soff erma solo a documentare il becero insinuarsi della retorica patriottarda del fascio persino tra le pieghe di, apparentemente innocui, esercizi linguistici. In alcuni passaggi, egli si avvale addirittura delle frasi adoperate dalle maestre per il dettato, ai fi ni della ricostruzione della psicologia inquieta di una classe docente che avvertiva sempre più vicino l’orlo del baratro. L’immagine, in esse, di un’aquila che si sgranchisce le ali per sferrare un attacco potrebbe dunque alludere all’imperialismo tedesco e il successivo oscurarsi del sole, con conseguente pioggia, sarebbe fi gura del confl itto imminente. Ci sono poi gli studi storico-letterari; tre riguardano la fi gura di Dante Alighieri e il suo poema: Dante fedele amante e sodomita pentito, Altro fu il mio giubileo e Siamo sicuri d’aver ‘letto’ Dante (e Omero)? Il secondo adotta lo schema dell’intervista impossibile e, interrogando il “ghibellin fuggiasco”, riprende, in maniera più discorsiva, la dotta materia degli altri due. Il professor Balsamo aveva progettato un ciclo di ben quattro volumi di “letture dantesche”, ma solo il primo ha veduto la luce per i tipi di Palomar. Lo studioso muove dalla lezione del Koehler e rigetta l’usuale interpretazione del poema in senso “morale-trascendentistico”, per considerarlo quale appassionata opera di ricostruzione della “cultura etico-fi losofi ca, che riportasse ordine nelle città” come nei “macrorganismi” della Chiesa e dell’Impero. Un’esegesi, insomma, che restituisca alla Commedia l’“agrume” di cui era pregna e sappia cogliere, persino in quelle perifrasi che la critica il più delle volte considera mero vezzo ornamentale, un criptolinguaggio. In tale direzione, fondamentale è la lettura che Balsamo off re del XV canto dell’Inferno, cominciando dal confronto tra gli argini del Flegetonte e le dighe della regione fi amminga, spiegato in chiave politica, per poi concludere con una lettura del peccato di sodomia (incoerenza verso la terra “patria”), che, all’epoca della sua formulazione, rappresentava senz’altro una pista originale di ricerca. La rilettura di Balsamo investe anche la poesia amorosa, che andrebbe riletta in chiave sociale, a partire da quei “colti dilettanti di poesia” che animavano la corte federiciana. È così che quello che potrebbe apparire il lamento di una donna innamorata per la partenza di un crociato, Già mai non mi conforto di Rinaldo d’Aquino, diviene voce dell’imperiale e cortigiana riluttanza a un’impresa cui Federico II veniva coartato dal papato. In Proposte interpretative (Ladisa, 1989), Balsamo poi, corrobora l’interpretazione “fi orentina” della Mandragola, ravvisando nel parassita Ligurio il principe che coadiuva Callimaco-popolo nella conquista di Lucrezia-Firenze, con la complicità della “vecchia borghesia intraprendente e mondana”-Sostrata. Nello stesso volume, suggestive le pagine sul tassiano Tancredi, “eroe spezzato”, che si trasforma (in una nuova irruzione controriformistica nel poema) in prete-battista per la morente Clorinda. Il professor Balsamo ha anche curato, sempre per Ladisa editore, due fl orilegi di novelle: Novelle di Renato Fucini e altri testi (1990) e I novellieri italiani (1992), in due volumi. Colpisce in primo luogo l’originalità nella scelta delle opere antologizzate, oggetto, tra l’altro, di un sobrio “ammodernamento linguistico”. Se consideriamo, ad esempio, il Decameron, ci accorgiamo che Balsamo suggerisce validi percorsi, perlopiù di carattere etico-sociale, alternativi all’usuale canone (Andreuccio-Lisabetta-Frate Cipolla-Calandrino-Chichibio), e dota le novelle di commenti approfonditi e di straordinaria fi nezza. Quanto al Balsamo scrittore... Le sue poesie, purtroppo, non sono state pubblicate; resta un romanzo edito da “L’Autore libri Firenze” nel 1994, Bella maliosa estate. Opera dal background coltissimo, se persino nell’episodio apparentemente ordinario dei protagonisti che raccolgono patelle sugli scogli, si opera una riscrittura di Decameron V 6 (che Balsamo antologizzava nei Novellieri). Si tratta di un Bildungsroman, che narra “sulle orme di Robinson Crusoe”, un’esaltante stagione dell’adolescenza del protagonista Giordano, tra la “villa delle meraviglie” dell’amico Franco e avventure noir nelle torri dell’agro molfettese. Torri nei pressi delle quali il professor Balsamo ancora adulto amava, fi nché gli è stato possibile, passeggiare con gli amici degli anni giovanili. Scorgiamo Giordano avvertire i primi turbamenti sensuali, inseguire nel palpito del cuore di Frida, madre dell’amico, e di Franca – la giovinetta che amerà – le infi nite pulsazioni di un’esistenza ch’è cantico di gioia. Questa convinzione non sarà in lui scardinata dagli studi sul montaliano e leopardiano “mal di vivere” (amena tematica della sua tesina di licenza media) né dalle brutture della società. Il suo pensiero danzerà nell’estatica (ma non troppo) ammirazione di Veneri antiche e moderne e degli spettacoli della natura che è, in ogni sua manifestazione, miracolo: “Io credo che chi si dispone verso il mondo e la vita, per coglierne la bellezza, passerà di meraviglia in meraviglia. È il nostro cuore che rende stupende le cose. Per trovare l’acqua, bisogna andare in cerca dell’acqua. E, se uno cammina nel deserto, quando trova un’oasi, questa non gli parrà una meraviglia? È solo un po’ d’acqua (noi abbiamo fontane, cisterne, laghi, bacini artifi ciali quotidianamente o quasi) con quattro palme, quattro comunissime palme, e cento datteri: sono dappertutto sulle piazze e nei mercati. E invece sono la vita. E questo non è meraviglioso?”
Autore: Gianni Antonio Palumbo