MOLFETTA - Tutto ciò che fai per me senza di me, lo fai contro di me: è una frase significativa ed emblematica attribuita a Gandhi che merita un approfondimento sui luoghi comuni della politica al giorno d’oggi. L’elettore supporta e vota forze politiche incapaci, le quali contraddicono la maggior parte delle promesse con cui avevano convinto i cittadini in campagna elettorale.
Oggi assistiamo a un crescente fenomeno di astensionismo elettorale al quale corrisponde un governo che decide senza tenere conto della volontà e soprattutto dei bisogni dei cittadini. Avviene anche e soprattutto a Molfetta, dove un’amministrazione comunale decapitata dal sindaco, sospeso per motivi giudiziari, continua ad andare avanti per non ammettere il proprio fallimento e per conservare poltrone e stipendi non più legittimati dalla volontà popolare.
Sempre più arroganti, sempre più attaccati al potere, anche senza consenso e legittimità politica, questi personaggi stanno offrendo l’immagine di una politica senza i cittadini, ignorando e perfino deridendo le richieste che vengono dai molfettesi, perché si sentono al sicuro fino a quando il sindaco Tommaso Minervini non deciderà di dimettersi. E non lo farà mai, legato com’è al potere, dove pensa di tornare. Così, pur non avendo più la maggioranza, dopo le dichiarazioni del presidente del consiglio comunale che, come da tradizione di famiglia politica trasformista, prende le distanze, ma non lascia l’incarico e lo stipendio, vanno avanti con tante facce di bronzo.
Assistiamo a comportamenti politici ipocriti di chi, come sempre, fiuta l’aria negativa e si prepara a riposizionarsi, senza perdere nulla, nemmeno per un giorno. La politica opportunistica di due piedi in una scarpa può incantare solo chi vota per interesse, non chi offre il proprio consenso con convinzione. Ma l’amministrazione delle liste civiche “ciambotto” ci ha abituato a voti che si spostano da una parte all’altra senza passione né convinzione, ma solo per rispondere al capo bastone di turno, che muove le proprie pedine in base all’interesse politico del momento o a quello vincente. Del resto, aveva ragione lo scrittore e giornalista Ennio Flaiano (Pescara 1910 – Roma 1972) quando affermava che l’italiano corre sempre in soccorso al vincitore: il molfettese di più.
Sono questi cosiddetti politici improvvisati che logorano la democrazia e alimentano l’astensionismo, perché a votare oggi, oltre a una minoranza di cittadini consapevoli dei propri diritti e con la voglia di cambiare, vanno solo i clienti, truppe cammellate dei signori delle tessere e dei pacchetti spendibili sul mercato del consenso.
Cresce, così, la sfiducia nella democrazia come veicolo di cambiamento ed emancipazione sociale, che oggi interessa in particolare i più poveri e i più svantaggiati. “Politica senza cittadini e cittadini senza politica”, un apparente ossimoro, un’espressione o una formula superficialmente contradditoria come potrebbe essere quella di “genitori senza figli”: è quello che viviamo al giorno d’oggi. Quanto è lontana la nozione classica, da Aristotele in poi, che era indissolubilmente legata alla dimensione politica, quando il cittadino era colui che contribuiva in modo attivo al processo di elaborazione delle decisioni collettive.
La nozione di cittadinanza oggi sembra aver perso qualsiasi connotazione politica, qualsiasi riferimento alla dimensione dell’impegno e della partecipazione. Col paradosso che il contrario della parola cittadino, non è più suddito, ma straniero: una spia delle trasformazioni del senso comune e di ciò che esso riflette spinto da una certa politica degenerata.
I rappresentanti eletti appaiono così distanti dalla volontà dei cittadini che la legittimità derivante dal voto sembra, paradossalmente, priva di legittimità.
David Von Reybrouck, scrittore, storico e archeologo belga, nel libro “Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico”, sostiene: E così, quei politici, i quali, «per lo più, partono dal principio che i cittadini hanno valori diversi e meno elevati dei loro», a sottolineare che la sfiducia popolo-politici è reciproca – sembrano essere ciò che di più lontano si possa avere da delle persone che sappiano con coerenza sviluppare un’azione di governo efficace e che tuteli il bene comune. Questo perché tali governi, che scaturiscono dalla democrazia contemporanea (di stampo occidentale, ma la cui diffusione ha preso direzioni globali), non risultato essere efficaci.
Di qui la stanchezza dei cittadini che votano sempre meno, non aderiscono a partiti, ma cambiano voto ad ogni tornata elettorale, manifestando la sfiducia nei confronti di politici intrappolati in un sistema di governo macchinoso, dove si dedica più tempo alle campagne elettorali e alla ricerca di compromessi che soddisfino tutti i partiti della coalizione e i rispettivi interessi, piuttosto che a mettere in atto politiche concrete, efficaci e orientate al bene comune. Da qui nasce, quindi, il bisogno di una figura forte al comando o di un tecnocrate.
Ma come si fa a fare qualcosa in favore del popolo se non si dà voce al popolo? Come un politico può fare il bene comune se non si apre a un continuo confronto con la gente, con coloro a cui il bene comune fa riferimento?
Oggi il governo della città è in mano a politici arroganti che, per salvare le proprie poltrone, ignorano le richieste e perfino gli appelli dei cittadini, continuano sulla propria strada, convinti che sia quella migliore per loro e per tutti, nella piena ignoranza delle priorità e nell’incapacità di gestire l’esistente, perfino le opere da loro stessi realizzate.
Ma non contenti di queste scelte sbagliate, continuano a progettare scempio nella città, come quello della colmata sul lungomare, propagandando come spiaggia, quella che sarà una vera e propria discarica realizzata con i rifiuti del dragaggio del porto e che costerà ben 12 milioni di euro, che potrebbero essere spesi per bisogni reali della città. Così il vice sindaco, per grazia ricevuta, ignora gli appelli dei cittadini, ai quali si è sempre richiamato a parole, ma dissociato nei fatti.
La politica senza cittadini è tutta qui, un distacco che si è realizzato in due direzioni: se da un verso sempre più cittadini si sono allontanati dalla politica, dall’altro è la politica stessa ad essersi ritratta e sottratta allo sguardo e alla presa del popolo, per agire indisturbata, tanto si avvale delle “coperture” delle truppe cammellate pronte a spostarsi a comando.
Questa situazione del doppio movimento era già stata rappresentata da un pensatore classico del pensiero politico, Alexis de Tocqueville, filosofo, politico e giurista francese (Parigi 1805 – Cannes 1859), il quale parlando dello svuotamento delle istituzioni democratiche locali nel corso del XVIII secolo, in Francia, così si esprimeva: «Il popolo, che non si lascia ingannare tanto facilmente quanto si crede dalle vuote apparenze di libertà, si astiene allora dovunque dall’interessarsi agli affari del comune e vive tra le sue mura come uno straniero. Inutilmente i magistrati tentano di tanto in tanto di ridestare in lui quel patriottismo municipale che ha compiuto prodigi nel Medio Evo; il popolo resta sordo, i maggiori interessi della città non sembrano commuoverlo. Si vorrebbe che andasse a votare, là dove si è creduto necessario conservare la vana immagine di un’elezione libera; ma il popolo si ostina ad astenersene».
Come uscire da questa difficile situazione che riflette non solo la politica locale, ma anche e soprattutto quella nazionale?
Oggi più che mai servirebbe introdurre un nuovo genere di limiti: non quelli che imbrigliano la libertà, ma quelli che la rendono possibile. Limiti simili a quelli voluti dal presidente americano Roosevelt dopo la crisi del ’29, capaci di rimettere la politica al di sopra del mercato e di restituire ai cittadini il potere di decidere quale modello di convivenza intendano costruire.
La democrazia, per sopravvivere, ha bisogno di istituzioni che rispecchino davvero la complessità del corpo sociale, che sappiano dare voce alle molteplici opinioni, agli interessi, ai conflitti che attraversano la società contemporanea. Perché la pluralità, se repressa, non scompare: si radicalizza.
Non bisogna temere di riportare la lotta di classe nello spazio pubblico, dentro — non fuori — le istituzioni democratiche. È lì, nel confronto aperto, che i conflitti possono trovare una forma politica e civile. Rimuoverli, al contrario, significa condannarli a esplodere altrove, fuori controllo.
Lo aveva capito il giurista e filosofo austriaco Hans Kelsen (Praga 1881 – Berkeley 1973) in un’epoca segnata da tensioni drammatiche e dalla minaccia concreta della violenza rivoluzionaria. La forza della democrazia, scriveva, sta proprio nella capacità di far emergere le passioni politiche, di portarle alla coscienza collettiva e, così, di trasformarle in equilibrio. L’autocrazia, invece, fonda la propria stabilità sulla rimozione: spinge le opinioni nel subconscio della società, dove inevitabilmente si accumula la spinta alla ribellione.
È da questa lezione che la politica dovrebbe ripartire: non dalla paura del conflitto, ma dal coraggio di riconoscerlo, rappresentarlo e governarlo.
Felice de Sanctis – Editoriale rivista mensile “Quindici” n. 10 ottobre 2025
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Autore: Felice de Sanctis