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Otto parole per rappresentare ciò che è meglio non sapere
15 febbraio 2019

Servono solo otto parole per rappresentare la crudeltà di quello che è passato alla storia come “Olocausto”. A dimostrarlo lo spettacolo “Otto parole”, ispirato al romanzo “Meglio non sapere” della giornalista Titti Marrone, portato in scena per la comunità scolastica del Liceo Classico “Leonardo Da Vinci” di Molfetta dalla compagnia teatrale “Il Carro dei Comici” al Teatro Regina Pacis. Una scenografia particolare, affidata al talento artistico di Giovanni Leone, ha accompagnato la rappresentazione: sulle immagini toccanti o sullo sfondo bianco l’artista ha cercato di raffigurare la mestizia dei campi di concentramento, la sofferenza per la morte, l’abominio della violenza. Tutte tematiche il cui approccio è avvenuto attraverso lo sguardo innocuo di due bambine originarie della città di Fiume, Tatiana e Andra Bucci, che avevano rispettivamente 6 e 4 anni quando, assieme al cugino Sergio De Simone, anche lui di soli 6 anni, sono state portate al lager dai nazisti. Quel posto orrendo, in cui le speranze sono spezzate, i sorrisi infranti, gli indumenti e i capelli sequestrati, assieme alla propria identità sostituita da un numero. Ciò che resta intatto è il legame fra le due sorelle, che sopravvivono non solo grazie all’intensità e alla forza del rapporto che le unisce, ma anche grazie agli avvertimenti pieni di affetto provenienti dalla blockova, ossia la guardiana del ghetto. “Chi di voi vuol tornare con la mamma?”: sono queste le otto parole cui si riferisce il titolo della performance, è questa la trappola che ha strappato via milioni di bambini fragili da un ghetto in cui non sarebbero più tornati con la scusa di una promessa mai rispettata. Quella promessa cui si affida Sergio, per cui non c’è speranza di salvezza, con la convinzione con la quale un bambino di 6 anni vede il mondo, ossia un posto sicuro, abitato da persone buone, il mondo in cui la mamma resta la persona per cui vale davvero la pena vivere e fare quel passo in avanti che con determinazione Tatiana e Andra resistono dal fare. Proprio questa determinazione, questa capacità di resistenza e di adattamento procura loro la salvezza fisica, che non coincide però con quella psicologica. Inevitabilmente segnate da un trauma, o più precisamente da una serie di traumi, quello della morte, quello della miseria, quello della crudeltà, quello del terrore, Andra e Tatiana vengono trasferite nel cottage di Weir Courtney a Lingfield, dove grazie all’impegno di Alice Goldberger e dei suoi collaboratori recuperano l’infanzia perduta e ritrovano i propri genitori. Animata dalla speranza che ha investito Andra, Tatiana e la loro famiglia, la mamma di Sergio, Gisella De Simone, continua invano le ricerche di suo figlio, scontrandosi ogni giorno con ciò che sarebbe davvero meglio non sapere. È bene sapere, invece, che “la vita senza memoria è come un filo spezzato”, e che la memoria è ciò che spinge il musicista Pantaleo Annese e gli attori Francesco Tammacco, Rosa Tarantino e Mariella Parlato a portare in scena ogni anno, nel periodo della Shoah, uno spettacolo inerente all’orrore che per non ripetere bisogna ricordare, raccontare, rappresentare. «Il nostro compito è quello di essere nello spettacolo a tal punto da far vivere al pubblico le emozioni, ma anche di mantenere un certo distacco, quello giusto per non lasciarci trasportare eccessivamente da quanto interpretiamo» spiega la Parlato, per concludere la mattinata che per gli studenti è iniziata in assemblea di istituto, con un momento di riflessione in cui Tammacco e la Tarantino hanno collegato l’abominio di metà Novecento con quello dei giorni nostri. Quello che invece di portare esseri umani innocenti all’interno di campi di concentramento li lascia in mare aperto. Come si evolve la follia dell’uomo in meno di un secolo? Meglio non sapere. © Riproduzione riservata

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