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Novant'anni fa la grandiosa e cruenta battaglia di Vittorio Veneto
15 novembre 2008

«I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza». È il famoso epilogo del bollettino n. 1268 firmato dal capo di stato maggiore italiano Armando Diaz, per annunciare la felice conclusione della battaglia di Vittorio Veneto. Il «Bollettino della Vittoria», di fatto scritto dal colonnello Domenico Siciliani, fu diffuso dal generale Diaz con la data del 4 novembre 1918, ore 13, e rappresentò l'attestato della rivincita italiana sul disastro di Caporetto. Con la «battaglia del solstizio», in giugno, l'esercito italiano aveva respinto sulla linea del Piave l'ultima grande offensiva austro-ungarica. Dopo questo successo, il generalissimo francese Ferdinand Foch, anche se i suoi poteri si limitavano al comando delle truppe franco-anglo-americane, in agosto fece pressioni al generale Diaz affinché preparasse un poderoso contrattacco per sfruttare tempestivamente il vantaggio ottenuto. Diaz si mostrò d'accordo sull'azione, ma non si sbilanciò per la data, perché il nemico era attestato su migliori posizioni e risultava allora superiore per uomini e armamenti. Alcune settimane dopo, tuttavia, iniziò i preparativi per la controffensiva. Mentre il ministro degli esteri Giorgio Sidney Sonnino e quello per l'assistenza militare Leonida Bissolati erano per un attacco da lanciare in tempi brevi, il collega del tesoro Francesco Saverio Nitti insisteva su misure di maggiore prudenza, temendo che uno sforzo eccessivo indebolisse l'esercito italiano. Diaz, sposando quest'ultimo suggerimento, il 25 settembre diede le prime istruzioni per un assalto di proporzioni limitate. L'obiettivo era la creazione di una testa di ponte oltre il Piave, dal Monte Cesen a Susegana, per sferrare un'offensiva generale nella primavera del 1919, quando, oltre ai «ragazzi del '99» già utilizzati, si sarebbe potuto disporre degli adolescenti della classe 1900. Gli Imperi centrali, però, erano sull'orlo della catastrofe. Infatti, in quello stesso 25 settembre, sotto i colpi dell'Armata d'Oriente, formata da reparti francesi, inglesi, serbi, greci e dalla 35ª divisione italiana, crollò il fronte bulgaro, esponendo le frontiere meridionali dell'Austria-Ungheria al rischio di un'invasione interalleata. Il 26 settembre iniziò un attacco in grande stile delle forze francesi e statunitensi tra le Argonne e la Mosa e nella Champagne. Il giorno dopo le truppe inglesi sfondarono in più punti la «linea Sigfrido ». Il 28 settembre l'offensiva alleata si estese al fronte delle Fiandre. Il 29 la Bulgaria firmò l'armistizio con l'Intesa. Il giorno dopo fu la volta della Turchia. I tempi erano ormai propizi per un significativo intervento italiano. Il capo del governo Vittorio Emanuele Orlando, temendo di sedersi al tavolo delle trattative in posizione di debolezza senza una grande vittoria italiana dopo la rotta di Caporetto, convocò l'11 ottobre i generali d'armata per spingere il comando supremo a un'offensiva ampia e generalizzata dal Grappa e dal Piave, per spezzare le linee nemiche tra i monti e la pianura e avanzare in profondità. Il 12 ottobre Diaz diramò nuove direttive per un attacco massiccio che muovesse dal Monte Grappa e dal fiume Piave con l'obiettivo dì separare le divisioni nemiche del Trentino da quelle del Piave e provocarne il cedimento. L'alto comando italiano era dislocato ad Abano, nei pressi di Padova, quello austro-ungarico a Baden, vicino Vienna, troppo lontano dal teatro delle operazioni militari. Il rivale di Diaz era il capo di stato maggiore Arthur Arz von Straussenburg. Il comando austriaco, comunque, si accorse dell'imminente offensiva italiana e organizzò per tempo le prime linee e le retrovie per fermarne l'attacco. Gli austroungarici avevano a disposizione 58 divisioni e mezza. Gli italiani, invece, potevano contare su 51 divisioni proprie, 3 divisioni inglesi, 2 francesi e una cecoslovacca, più un reggimento di fanteria americano. Le divisioni austriache, però, erano formate da 13 battaglioni, quelle italiane da 12. I battaglioni austriaci erano composti da 5 compagnie con 24 mitragliatrici ciascuna, quelli italiani da 4 compagnie con 18 mitragliatrici. Gli italiani, d'altra parte, erano superiori sia nell'artiglieria con 7.700 pezzi e 1.750 bombarde contro 6.000 cannoni e 1.000 bombarde, sia nell'aviazione con 650 aerei contro 450. L'esercito austro-ungarico era diviso in tre gruppi d'armate. Il gruppo del Tirolo comprendeva la X e la XI armata al comando dell'arciduca Giuseppe d'Asburgo. Il gruppo d'armata Belluno, dislocato tra il Brenta e il Piave, si avvaleva di 12 divisioni, 1.385 cannoni e 3.130 mitragliatrici, e ubbidiva al generale ungherese Ferdinand Ritter Goglia. Il gruppo del Piave abbracciava la VI e la V armata (detta dell'Isonzo) agli ordini del feldmaresciallo croato Svetozar Boroevic, che aveva diretto la sanguinosissima e fallita offensiva di giugno lungo il Piave. Le forze italiane conservavano lo stesso schieramento di giugno: la VII armata del generale Giulio Tassoni dallo Stelvio al Garda; la I armata del generale Guglielmi Pecori Giraldi dal Garda all'Astico; la VI armata del generale Luca Montuori dall'Astico alla Valsugana; la IV armata del generale Gaetano Ettore Giardino sul Grappa; l'VIII armata del generale Enrico Caviglia sul Montello e la III armata del duca d'Aosta Emanuele Filiberto sularmata del generale Paolo Morrone e il grosso degli squadroni di cavalleria. L'unica novità fu la creazione di due piccole armate: la X e la XII. La XII, composta da 3 divisioni italiane e una francese fu posta al comando del generale francese César Graziani e dislocata sul Monte Tomba tra la IV e l'VIII armata. La X, formata da 2 divisioni inglesi e 2 italiane, fu messa agli ordini del generale britannico lord Frederick Rudolph Lambart, conte di Cavan, e inserita tra l'VIII e la III armata. L'offensiva italiana era prevista per il 18 ottobre, ma la piena del fiume ritardò le operazioni. Le ostilità furono aperte alle tre del 24 ottobre da un intenso fuoco di artiglieria. Alle 7.15 le fanterie della IV armata di Giardino si slanciarono all'attacco sulla linea Grappa-Solaroli-Valderoa-Spinoncia contro il gruppo Belluno. Ma la preparazione d'artiglieria italiana, frettolosa e disturbata dalla nebbia e dalla pioggia, si rivelò imprecisa e insufficiente. Così lo scontro degenerò in una battaglia di logoramento di tipo carsico. Tanto più che l'artiglieria austriaca colpiva con grande efficacia e le alture erano magistralmente difese da molti nidi di mitragliatrici nascoste in caverna, che falciavano implacabilmente i fanti italiani lanciati all'assalto. Gli attacchi si protrassero accanitamente fino al 28 con sanguinose avanzate, dolorosi arretramenti e lievi riconquiste. Catturando 3.500 nemici, a prezzo di ingenti perdite (5.000 morti, 20.000 feriti e 3.000 prigionieri), la IV armata, stremata e logorata, ottenne ciò che il comando supremo italiano voleva: il rinforzo austro-ungarico del settore a discapito delle aree difensive del Piave. L'ingrossamento del Piave, tuttavia, ritardò ai reparti italiani l'attraversamento del fiume, previsto per il 24 sera. Solo gli inglesi della X armata riuscirono a varcare un braccio del Piave dove il passaggio era più agevole per la presenza di molti isolotti, fermandosi nelle isole delle grave di Papadopoli. Degli undici ponti di barche previsti, per i bombardamenti nemici e l'impeto delle acque, ne furono ultimati soltanto sei. Il superamento del Piave iniziò la sera del 26 ottobre. Il 27 la piccola XII armata italo-francese di Graziani varcò il fiume e stabilì una testa di ponte ai piedi del Monte Cesén presso Valdobbiadene. L'VIII armata di Caviglia cominciò a passare, ma per le difficoltà del terreno, raggiunsero la sponda sinistra solo il 22° e il 27° corpo d'armata, che si attestarono nella piana della Sernaglia dopo che gli arditi catturarono 9.000 prigionieri e 51 cannoni a una divisione di cavalleria ungherese appiedata. Il terzo avamposto fu costituito a Cimadolmo dalla piccola X armata anglo-italiana di lord Cavan dopo aver superato il secondo grande braccio del fiume. Le tre piccole teste di ponte, tuttavia, erano bisognose di rifornimenti, scollegate fra loro ed esposte ai violenti contrattacchi nemici. Non riuscirono invece a oltrepassare il Piave l'8° e il 18° corpo dell'VIII armata bloccati fra il 27 e il 28 ottobre da un furioso bombardamento dei ponti e delle passerelle da parte degli austriaci. Allora il generale Caviglia, non riuscendo a gettare o a completare i suoi ponti, con una felice mossa inviò il 18° corpo di riserva ai ponti della X armata per aprire la strada agli altri suoi reparti. II 28 ottobre la dura reazione austriaca aprì una falla tra l'VIII armata di Caviglia e la X di lord Cavan, ma la tenace resistenza italiana impedì nuovi sfaldamenti. In tal modo il giorno seguente l'VIII armata di Caviglia completò l'attraversamento del fiume e la XII italo-francese di Graziani allargò la testa di ponte, lanciando la sua 52a divisione alpina alla conquista del Monte Cesén. Mentre il 1° corpo della IV armata di Giardino arrivava alla stretta di Quero, diversi reparti dell'VIII di Caviglia avanzarono fra le colline a nord di Conegliano. Inoltre la X armata di Cavan, entrata in Conegliano, riuscì a superare il fiume Monticano in alcuni punti. Intanto la marina croata a Fiume si era ammutinata. Il comandante Miloscevic, incapace di riportare l'ordine, il 28 ottobre si suicidò. Nello stesso giorno a Pola 15.000 marinai erano in piena ribellione. Il 28 i cechi e gli slovacchi si pronunziarono per una repubblica autonoma e ancor prima i magiari avevano proclamato l'indipendenza dell'Ungheria. Il 29 ottobre, allora, l'imperatore Carlo I d'Asburgo chiese l'armistizio direttamente al comando italiano, mentre i croati e gli sloveni si staccavano dall'Impero austro-ungarico per dar vita alla Jugoslavia. All'alto morale dei combattenti italiani corrispondeva lo smarrimento dei soldati imperiali, tra cui i cechi, gli ungheresi, gli slavi del sud e i rumeni di Transilvania, a corto di vettovaglie e obbligati a difendere uno stato di cui non volevano far più parte. Mentre la prima linea reggeva, nelle retrovie austriache serpeggiava la rivolta. Moltissimi soldati si rifiutavano di raggiungere il fronte e a migliaia abbandonavano il terreno dello scontro, anche perché tagliati fuori dai magazzini dei viveri e rifornimenti situati in Alto Adige. Completato lo sfondamento della linea del Piave tra il 28 e il 29 ottobre, l'esercito italiano s'impegnò nella gigantesca battaglia della Sernaglia o di Vittorio. Bisogna sapere che questo comune risultava dall'aggregazione dì Ceneda e Serravalle, riunite nel 1866 col nome di Vittorio in onore di Vittorio Emanuele II, e solo a partire dal 1923 prenderà la denominazione di Vittorio Veneto. Mentre le truppe italiane proseguivano la loro azione a ventaglio, all'alba del 30 ottobre una colonna celere di lancieri di Firenze e di bersaglieri ciclisti del 3° reggimento dell'VIII armata occupò Vittorio. L'esercito austriaco era ormai spezzato in due tronconi. Nello stesso giorno la 52a divisione alpina della XII armata di Graziani, superato il Monte Cesén, si mosse verso Belluno, mentre il 1° corpo della IV armata di Giardino avanzava sul fondo della valle del Piave. In questa giornata, mentre ricacciava il nemico dalle posizioni sulla riva sinistra del fiume, fu gravemente ferito a Romanziol di Piave il pluridecorato molfettese Michele Carabellese, capitano del 231° reggimento di fanteria, che morirà il 6 novembre nell'ambulanza chirurgica della IV armata. Sul basso Piave il 30 ottobre ebbe finalmente l'ordine di attaccare anche la III armata del duca d'Aosta, che avanzò fortemente contrastata dai nemici. Intanto il grosso dell'VIII armata di Caviglia, operando una grande manovra d'aggiramento a sinistra, avanzava fino alle Prealpi bellunesi, mentre la X armata di Cavan toccava il fiume Livenza e squadroni di cavalleria entravano in Sacile. Il numero dei prigionieri imperiali superò le 50.000 unità, con la conquista di 300 cannoni. Nella notte fra il 30 e il 31 ottobre crollò anche la tenace difesa austriaca del Grappa e degli Altipiani, ripiegando ordinatamente. Il 31 ottobre la IV armata di Giardino liberò Feltre. Mentre gli alpini della XII armata si spingevano fin davanti a Belluno, l'VIII armata di Caviglia, la X di Cavan e la III del duca d'Aosta dilagavano nella pianura veneta sulla scia delle divisioni di cavalleria lanciate all'inseguimento dell'esercito austriaco in piena rotta. Sui monti la VI armata di Montuori avanzò sull'Altopiano dì Asiago e il 29° corpo si mosse fulmineamente verso Trento, tagliando la ritirata alle armate nemiche del Trentino e determinando il più completo sfacelo delle linee avversarie. Nella notte sul 1° novembre il maggiore del genio navale Raffaele Rossetti e il tenente medico Raffaele Paolucci affondarono a Pola la grande corazzata austriaca “Viribus Unitis”. Dal 1° novembre la penetrazione italiana interessò l'intero fronte. La sera del 2 novembre era occupata Rovereto e il maresciallo Boroevic comunicava al suo comando di non ritenere possibile nemmeno il mantenimento delle vecchie posizioni del 1915. Arz, allora, ordinò la ritirata generale. Ormai lo schieramento austro-ungarico era in pieno sfacelo. Così il 3 novembre le avanguardie italiane entrarono in Trento e Udine, mentre un reparto di bersaglieri partito da Venezia sbarcava a Trieste. Contemporaneamente a Villa Giusti presso Padova la delegazione italiana, guidata dal generale Pietro Badoglio, sottocapo di stato maggiore, e quella austriaca, affidata al generale Victor Weber von Webenau, comandante del 6° corpo d'armata imperiale, s'incontrarono per firmare l'armistizio, che fu concluso alle ore 18. La cessazione delle ostilità fu fissata per le ore 15 del 4 novembre. Il 4 novembre reparti della VII e I armata raggiunsero i passi di Resia e del Brennero. Mentre la X armata era in marcia oltre il Tagliamento e la 23a divisione del generale Gustavo Fara con un'avanguardia di cavalleggeri, bersaglieri ciclisti e arditi reggimentali si affrettava all'inseguimento degli austriaci in direzione di Castions di Strada, la battaglia di Vittorio Veneto si concluse al trivio di Paradiso alle ore 15 con l'ultima ardimentosa carica di cavalleria del reggimento Aquila sotto il tiro di un battaglione di mitraglieri ungheresi. Per guadagnare altri pochi palmi di terra, a pochi minuti dall'armistizio, si permise l'inutile sacrificio di decine di cavalleggeri, in gran parte ragazzi diciannovenni. L'offensiva italiana, che accelerò la fine della prima guerra mondiale, costò gravissime perdite per l'accanita resistenza opposta inizialmente dagli austro-ungarici. Gli italiani ebbero 7.500 morti (tra cui alcuni molfettesi), più di 27.000 feriti e oltre 3.500 prigionieri, cui vanno aggiunti 1.024 caduti inglesi, 480 francesi, 336 cecoslovacchi e un americano, ma catturarono 427.000 austro-ungarici e oltre 6.000 cannoni. Gli austriaci, inoltre, persero più di 30.000 uomini tra morti e feriti. La vittoria italiana, con la resa a discrezione dell'Austria, rese impossibile l'ulteriore resistenza della Germania. Il generale tedesco Erich von Ludendorff infatti commentò: «A Vittorio [Veneto] l'Austria non aveva perduto una battaglia, ma aveva perduto la guerra e se stessa, trascinando anche la Germania nella propria rovina». A sua volta la rivista inglese The Spectator definì la battaglia di Vittorio Veneto «non solo la più grande in questa guerra, ma una delle più grandi in tutta la storia».
Autore: Marco I. de Santis
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