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NEW YORK - Una molfettese racconta: “Ero in una delle Torri Gemelle, sono viva per miracolo” ESCLUSIVO – La drammatica ed eccezionale testimonianza di Maria Amato che ha vissuto la tragedia minuto per minuto da protagonista
15 settembre 2001

La terribile tragedia dell’attentato alle Torri Gemelle di New York ha indignato e commosso tutto il mondo. Per questo anche un giornale locale non può ignorare questo evento lontano, ma pur così vicino a noi e destinato a cambiare il nostro modo di vivere. Molfetta non può dimenticare che a New York vivono molti suoi figli, emigrati in anni lontani alla ricerca di quel lavoro, oggi come allora, sempre scarso. Oggi quegli uomini e quelle donne si guardano intorno sgomenti per una tragedia che non ha alcuna giustificazione. “Quindici” non poteva dimenticare questo legame forte tra Molfetta e l’America, non poteva dimenticare che la nostra città è cresciuta anche col contributo determinante di tanti suoi figli, alcuni dei quali tornano ogni tanto a rivedere la loro terra natia, alla quale li lega un affetto infinito. I molfettesi d’America che hanno Molfetta nel cuore e New York negli occhi, oggi vedono crollare un simbolo di quella meravigliosa città che li ha amorevolmente accolti. E mentre gli occhi piangono, col cuore si sentono ancora più vicini al loro paese d’origine, quasi nella disperata ricerca di un approdo sentimentale sicuro che possa consolarli di fronte a questa catastrofe. Queste pagine di “Quindici” sono dedicate a loro. Vi proponiamo la testimonianza drammatica ed eccezionale di una donna molfettese, Maria Amato, di 36 anni, madre di due bimbi, che lavorava come commessa in un negozio di abbigliamento al 29° piano della seconda torre colpita. E’ viva per miracolo. Questo il suo racconto. “Mi trovavo come al solito al mio posto di lavoro, era appena cominciata una nuova giornata lavorativa e nulla faceva pensare che di lì ad alcuni minuti si sarebbe scatenato l’inferno. All’improvviso abbiamo sentito un boato fortissimo, non riuscivo a capire cosa fosse e da dove proivenisse, ma istintivamente ho pensato ad una bomba. Poi, il mio capo ha cominciato ad urlare “hanno colpito la torre, hanno colpito la torre, è un disastro, abbandonate tutto, scappiamo tutti giù per le scale”. Così ci siamo precipitati per le scale, escludendo subito gli ascensori che in questi casi possono trasformarsi in bare. Scendevamo precipitosamente, eravamo tanti, alcuni cadevano, passavamo anche sopra di loro, non c’era tempo per fermarsi: occorreva fare in fretta. La paura metteva le ali ai piedi. In quel momento non ho pensato che anche la nostra torre potesse essere colpita, perché non pensavamo a un aereo, ma a un ordigno esplosivo collocato all’interno, sfuggendo anche i rigorosi controlli che c’erano. Ma qualcosa dentro di me diceva “fuggi, mettiti in salvo, pensa ai tuoi bambini piccoli”. Avevo tanta paura, ma non mi sono fatta prendere dal panico e dopo una precipitosa discesa sono riuscita ad arrivare in strada. Solo in qual momento ho avuto un attimo di sgomento nel vedere le vampate di fuoco e il grande fumo nero che fuoriusciva dalla prima delle Twin Tower. Non ho fatto in tempo a rendermi conto di cosa fosse avvenuto e, mentre avevo lo sguardo in su, ho visto arrivare un altro aereo e colpire la nostra torre. Sono rimasta alcuni istanti pietrificata, poi sono arrivati pompieri o poliziotti, non ricordo, che mi hanno fatta allontanare. Ho pensato al miracolo: ho ringraziato il buon Dio per avermi risparmiato una fine orrenda e un pensiero è andato, inevitabilmente alla Madonna dei Martiri, protettrice di Molfetta: lei mi avrà salvato, ripetevo fra me. In quel momento vagavano tanti pensieri, ma uno fra tutti mi assillava: i miei bambini. Non sapevo se loro fossero al sicuro ad Hoboken, non sapevo se altri aerei avessero colpito quella zona, non sapevo se era iniziata una guerra, un bombardamento, la fine del mondo, l’inferno. Dopo aver vagato per alcuni minuti stordita, ho cercato un telefono, ma mentre giravo, è venuta giù la nostra torre. L’ho vista sbriciolarsi come un castello di sabbia, una nuvola di polvere ha avvolto tutto rendendo l’aria irrespirabile. Inutile cercare di telefonare, le linee sembravano interrotte o impazzite. Alla fine pompieri e poliziotti hanno circondato tutta l’area, era impossibile uscire. Siamo rimasti così prigionieri per ore, mentre vedevo gente impazzita saltare giù dalle torri sapendo che andava a sfracellarsi al suolo: non ho potuto resistere più di tanto e mi sono ranicchiata in un angolo a piangere. E’ stato un pianto liberatorio per il pericolo scampato, ma anche un pianto di rabbia per non poter fare nulla e di paura per la sorte dei miei cari: non sapevo nulla neanche di mio marito. Sono rimasta “prigioniera” con tanti altri in quell’area per 11 ore, vagando come un cane randagio in trappola, cercando di prendere qualche mezzo per tornare a casa. Ma circolavano solo mezzi di servizio, in un ululato assordante di sirene che si confondeva con gemiti, pianti, lamenti, urla. Una cosa terrificante. Da dimenticare. Poi, finalmente, la polizia ci ha prelevato e ci ha portato verso un ferry-boat, un traghetto che mi ha riportato a casa. Solo allora ho potuto riabbracciare i miei cari ed essere sicura che anche loro erano vivi. Abbiamo subito cercato di telefonare in Italia, ma le linee erano interrotte. Ho usato il computer per trasmettere via e-mail queste mie impressioni e assicurare tutti che stavo bene. Ma questo giorno non potrò dimenticarlo per tutta la vita: non ho dormito tutta la notte, rivivendo l’incubo. Ho tanta paura per il futuro…” Il racconto finisce qui. Non aggiungiamo altro a questa drammatica testimonianza. Abbiamo anche intervistato due molfettesi che si preparavano a rientrare: Corrado Petruzzella e Sergio La Grasta. Erano sconvolti, non volevano parlare con un giornalista, pensavano costantemente ai loro parenti rimasti in America e non vedevano l’ora di poter prendere il primo aereo, appena la situazione del traffico si fosse sbloccata. “La situazione è molto male”, dice La Grasta. “Ora non so se ci sarà la guerra: è una cosa malamente, ma se sarà necessario la guerra si deve fare. Questi terroristi devono pagare per quello che hanno fatto, non si possono uccidere così tante persone innocenti”. Ma la guerra è giusta?, gli abbiamo chiesto. Sì, la penso come tutti gli americani. Sono partito a 16 anni, oggi ne ho 49 e mi sento più americano che italiano e pronto a combattere per l’America”. Felice de Sanctis
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