MOLFETTA - Perché un referendum contro la privatizzazione dell’acqua il prossimo 12 giugno? Perché il governo ha deciso di affidare la gestione di un bene pubblico a privati, la risposta del dott. Rosario Lembo, presidente del «Comitato Italia Contratto Mondiale sull’acqua-onlus» e direttore dell’Università del Bene Comune (Facoltà Acqua), nel secondo appuntamento di «Conoscere il bene acqua per poterlo difendere. Verso i referendum contro la privatizzazioni» al Seminario vescovile.
L’art. 23 del Ddl n.112/08 mette l’acqua sul mercato e il Decreto Calderoli sopprime le Ato (Ambito territoriale ottimale), affidando la gestione del servizio idrico a privati: «il referendum vuole eliminare queste leggi che privatizzano e mercificano l’acqua per una sua gestione responsabile da parte della collettività - ha spiegato il dott. Lembo - abbiamo raccolto 1,4milioni di firme».
Necessario intensificare la campagna referendaria, perché «il successo referendario implicherà non solo un ripensamento parlamentare e una nuova legislazione, ma anche la costituzionalizzazione del diritto all’acqua».
I quesiti. Il primo quesito abroga l’art. 23 del Ddl n.112/08, il secondo l’art. 154 del D.Lgs 152/06: raggiunto il quorum del “sì”, si fermerebbe la classificazione dell’acqua come merce e la sua privatizzazione, oltre a eliminare la possibilità di ottenere profitti dalla gestione dell’acqua. «Il gestore privato ottiene profitti sulla tariffa - ha spiegato Lembo - caricando sulla bolletta dei cittadini un 7% di remunerazione del capitale investito».
L’art. 23 affida la gestione di acqua, trasporti pubblici e rifiuti a privati con bando di gara (almeno il 40% del servizio): svendita dell’acqua, secondo il dott. Lembo, con l’aumento delle bollette (+20%) e la riduzione degli investimenti nella modernizzazione degli impianti. L’abrogazione dell’art. 23 eliminerebbe l’obbligo del bando di gara, il 7% dalla bolletta, riconsegnando alla collettività la gestione del servizio.
Grandi affari per chi gestirà l’acqua, «passando al monopolio privato - ha aggiunto Lembo - e l’ente pubblico non solo diventerà azionista, ma non avrà più interesse per la gestione del bene, scaricando colpe e responsabilità al privato».
Perché una gestione pubblica? L’acqua è un bene comune, non una merce, e il servizio dev’essere privo di rilevanza economica. Primo principio sancito dal Contratto Mondiale dell’Acqua, come ha ricordato il dott. Lembo. «L’acqua è un diritto umano e universale, che va protetto da un governo unico e finanziato con una fiscalità generale - ha aggiunto - partecipato da tutti a livello territoriale».
Ad esempio, in Italia non esiste un ministero unico che si occupi della gestione dell’acqua ed è depositata in Parlamento una legge sulla gestione pubblica dell’acqua che non ha ancora un relatore.
Il fronte del “no”. Bisognerà abbattere la manipolazione dell’informazione e gli interessi personali e economici che caldeggiano la privatizzazione dell’acqua.
L’UE impone questo meccanismo: ipotesi rigettata dal dott. Lembo, se molti Paesi europei stanno ripubblicizzando la gestione del servizio idrico, i cui costi erano aumentati in modo spropositato dopo la privatizzazione. Si privatizza il servizio, non il bene, altra scusante del “no”, ma «le decisioni saranno anche assunte dalla parte privata, che può imporre il proprio veto».
Inoltre, privatizzare non è sinonimo di più investimenti e meno sprechi, perché «il privato segue la logica di mercato del “più consumi, meno paghi” e “più vendi, più guadagni”». Ad esempio, chi finanzierebbe la ristrutturazione del 35% della rete dell’Acquedotto Pugliese?
L’ente pubblico non è capace di una gestione corretta del servizio, perché lottizzato politicamente: «anche la gestione privata non offre garanzie di trasparenza - la replica di Lembo - e, da quando la politica è uscita dalla gestione dell’Acquedotto Pugliese, ora gestito da soli tecnici, le perdite sono state ridotte al 35%, il personale è diminuito del 15% e sono stati investi quasi 200milioni di euro, dieci volte gli investimenti del passato».
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Solo la gestione pubblica del servizio può responsabilizzare il cittadino, abituato in democrazia a derogare o esternalizzare il proprio potere di controllo a politici e privati, assuefatto da una accomodante omertà intellettuale. Quanti cittadini di Molfetta partecipano al Consiglio comunale? Quanti conosco la politica locale? Pochissimi, si crede di derogare l’amministrazione della città (o dello Stato) al partito, anzi, al rappresentante politico di turno.
Senza il controllo sull’amministrazione, il cittadino è il fantoccio delle elezioni politiche, nulla di più. Il referendum è l’occasione per riappropriarsi della dignità di cittadini e del concetto di democrazia, per evitare che un bene pubblico diventi un prodotto da supermercato.
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