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Molfetta, “Parlo italiano: il '300 e il '400” all'Associazione educatore benemeriti
05 dicembre 2011

MOLFETTA - Parlo italiano: il ‘300 e il ‘400. Questo è il titolo del secondo di un ciclo di incontri sull’evoluzione della lingua italiana, tenutosi il 17 ottobre presso la sede dell’ANEB (Associazione Nazionale Educatori Benemeriti) di Molfetta, presieduta da Annetta La Candia Minervini, e curato del prof. Michele De Chirico (nella foto), che ha tracciato un’excursus linguistico – letterario del Trecento, il secolo della grande letteratura italiana in lingua volgare, e del Quattrocento, il secolo che vede l’affermazione dell’Umanesimo.

L’analisi del relatore ha avuto come punto di partenza il Dolce Stilnovo, una corrente poetica nata sul finire del Duecento a Bologna su iniziativa del poeta Guido Guinizelli, ma che trovò il suo centro più fecondo a Firenze, per merito di autori quali Guido Cavalcanti, Gianni Alfani, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, Cino da Pistoia e il giovane Dante Alighieri.
L’espressione “Stilnovo” fu coniata proprio da Dante nel suo trattato sul volgare (De Vulgari Eloquentia) e ripresa nel canto XXXIV del Purgatorio. Presso i poeti di questa scuola l’amore, inteso come un’occasione di elevazione spirituale, si accompagnava alla “gentilezza”, ovvero la nobiltà d’animo, una nobiltà che non coincideva con l’appartenenza alla classe aristocratica, ma con le virtù dell’animo come la lealtà, l’onestà, l’amore per la giustizia, il rispetto degli altri. Il tutto attraverso l’uso di un volgare dolce ed elegante, ricco di musicalità.
Questa panoramica sul Dolce Stilnovo è stata incentrata soprattutto su Dante (il cui vero nome era Durante) Alighieri, il quale in alcune opere giovanili, in modo particolare nella Vita Nova, vi aveva apertamente dichiarato la propria adesione.
La Vita Nova costituisce l’ideale itinerario dell’amore di Dante per Beatrice, e fu scritta dopo la morte di lei, per sublimarne l’immagine. Proprio dalla Vita Nova il prof. De Chirico ha letto e commentato i versi del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare (qui pare deve essere inteso nel senso di si mostra, e non di sembra), in cui la figura femminile, in questo caso Beatrice, si arricchisce di un’angelica umanità: riconosciuta come una creatura celeste non solo da Dante, ma da tutti coloro che hanno la fortuna di incontrarla e di riceverne il saluto, diviene concreta ed eterea ad un tempo, gentile e delicato tramite d’unione fra Dio e il creato, di cui è la manifestazione più bella.
A seguire, il relatore ha letto un altro celebre sonetto, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, nel quale Dante si augura che la virtù di un incantesimo trasferisca lui e i suoi due amici prediletti – i poeti Guido Cavalcanti e Lapo Gianni – su una piccola nave a zonzo per i mari: non dovranno essere soli, ma ciascuno in compagnia della propria donna, onde trascorrere più dolcemente il tempo, ragionando d’amore.
La trattazione è proseguita con qualche cenno biografico su Dante, che apparteneva alla piccola nobiltà fiorentina e che visse in un momento storico particolarmente difficile per l’Italia, come anche per Firenze, scissa nelle due fazioni dei Neri e dei Bianchi, questi ultimi preoccupati di salvaguardare l’autonomia di Firenze dalle ingerenze straniere e pontificie (era papa Bonifacio VIII).
Iscrittosi all’Arte dei Medici e degli Speziali entrò, come esponente di parte bianca, a far parte del Collegio dei Priori che nel 1300 espulse da Firenze i capi delle due fazioni, con l’obiettivo di far ritornare la pace. Nel frattempo papa Bonifacio VIII si accordò con Carlo di Valois che marciò su Firenze per mettere pace ma, in realtà, per garantire la vittoria dei Neri. Dante era a Roma in ambasceria, quando i Neri, forti dell’appoggio di Carlo di Valois, rovesciarono il governo dei Bianchi. Il poeta venne processato in contumacia e ingiustamente condannato per baratteria a due anni di esilio.
Iniziò per Dante il periodo più triste, ma artisticamente più fecondo, della sua vita. Rifiutandosi di accettare la condanna, egli si precluse ogni speranza di ritorno in patria e visse ramingo, accettando l’ospitalità dei Signori italiani (tra cui Guido Novello Da Polenta di Ravenna), lontano dagli affetti familiari e dagli amici.
Delle altre opere di Dante, il prof. De Chirico si è soffermato sul De Vulgari Eloquentia, un’opera, rimasta incompiuta, scritta in latino e rivolta ai dotti, in cui si proponeva di esaltare il volgare come lingua perfettamente degna delle opere più importanti d’ordine filosofico, letterario e culturale. Moderne sono le idee dantesche sull’evoluzione della lingua, sulla sua caratteristica di adattarsi agli sviluppi della civiltà, sulla necessità di non pietrificarla. Nell’opera Dante esamina le lingue d’Oc e d’Oil cercando una comune origine che non ritrova però nel Latino perché questo non è lingua viva ma grammatica. Secondo Dante il volgare deve essere illustre, cardinale, aulico e curiale. L’opera si compone di due parti: nella prima è affrontato il problema di determinare quale debba essere il nuovo volgare della nascente cultura letteraria italiana: esaminati e scartati i 14 fondamentali volgari regionali, viene indicata la necessità di una lingua illustre che componga in unità i contributi linguistici delle singole regioni. Nella seconda parte, accettata la tradizionale distinzione dei tre stili poetici (elegiaco, comico e tragico) viene indicato come proprio dell’auspicato nuovo volgare solo lo stile tragico che ha nella canzone la sua naturale forma metrica. In fondo Dante ritiene che degni di usare il volgare illustre siano soltanto i grandi poeti, coloro cioè che cercano di nobilitare le parlate cittadine o regionali.
Il professor De Chirico non poteva concludere l’intervento su Dante senza accennare alla Divina Commedia, in cui il sommo poeta, ispirandosi alla realtà storica presente, utilizza la poesia per evangelizzare ed educare l’umanità. Tutta l’opera è pervasa anche da una profonda tensione politica: sferza la corruzione della Chiesa, auspica la restaurazione dell’Impero, condanna le fazioni e la violenza crudele dei partiti. Il tutto facendo ricorso all’«allegoria», un artificio poetico grazie al quale si maschera una verità religiosa, filosofica o morale, dietro l’apparato di una favola o di un racconto: in questo senso la Commedia è stata definita un poema allegorico. Il viaggio che Dante compie nel regno dei morti è una grande allegoria dietro la quale si deve intendere il lento e faticoso cammino dell’uomo verso la giustizia e la purezza interiore necessaria per meritare e ottenere la salvezza dell’anima.
A seguire, il relatore si è soffermato sulla figura di Francesco Petrarca, che ha definito un “apolide”, in quanto in gioventù, per vicende legate alla professione del padre, notaio fiorentino di parte bianca esule ad Arezzo, dovette viaggiare in lungo e in largo tra Italia e Francia, ricevendo in tal modo una raffinata formazione culturale. La sua produzione, molto vasta, comprende anche opere in latino, tra le quali spicca il Secretum, uno scritto in prosa molto importante, perché riflette il tormento del poeta e i suoi conflitti interiori. L’opera contiene tre immaginari dialoghi con Sant’Agostino, caro al Petrarca perché anch’egli, nelle sue Confessioni, descriveva il travaglio del suo animo diviso fra i doveri religiosi e gli imperativi di una natura appassionatamente umana. Alla presenza della Verità, il poeta prende coscienza dei propri limiti, confessa umilmente a se stesso, in primo luogo, e poi anche al Santo e a tutti i lettori, la propria debole volontà, l’accidia, l’inclinazione per i beni mondani, la superbia, l’ambizione e la lussuria. Il Secretum è l’opera in cui più acuta si fa l’introspezione psicologica del poeta.
Tra le opere in volgare di Petrarca eccelle il Canzoniere, in cui il dissidio interiore del poeta nasce dalla coscienza del contrasto tra l’amore per Laura, personaggio focale della raccolta, e l’aspirazione alla ricerca di una verità morale seguendo le orme di Sant’Agostino, della salvezza dell’anima come frutto di paziente disciplina interiore e di sacrificio. Tuttavia nelle liriche si avverte non tanto l’angoscia, quanto la malinconia, il sospiro, la stanchezza. Da qui nasce la soavità dello stile musicale, dolcissimo, trasognato e caratterizzato da una limpida semplicità di suoni e di parole. Dell’opera il prof. De Chirico ha declamato, commentandoli, i versi delle poesie Chiare, fresche e dolci acque, Solo e pensoso i più deserti campi e Erano i capei d’oro a l’aura sparsi.
L’intervento su Petrarca si è concluso con alcune considerazioni inerenti la sua attività di “umanista”, agevolato in questo dal suo ruolo di chierico, che gli consentiva di avere libero accesso nelle biblioteche di monasteri, abbazie, conventi, dove ebbe modo di consultare numerosi manoscritti delle opere della latinità classica, scoprendo, così, alcune orazioni e numerose lettere di Cicerone, opere di Seneca, Virgilio, Ovidio, Orazio, Livio, trascrivendole e commentandole. Con questa sua prodigiosa e importantissima attività egli preparò la strada all’Umanesimo del Quattrocento, lasciando un’importante eredità ai suoi ideali allievi, gli umanisti fiorentini, quali Coluccio Salutati e Marsilio, anche se, paradossalmente, a livello letterario l’Umanesimo non ha prodotto scrittori di spicco.
Il prof. De Chirico ha concluso la serata tracciando un ritratto di Boccaccio, l’interprete della borghesia emergente del XIV secolo, con la sua ammirazione incondizionata dell’intelligenza umana. Nato a Certaldo, vicino a Firenze, e figlio di un ricco mercante legato alla casa bancaria dei Bardi, trascorse la sua giovinezza a Napoli, per studiare “mercatura”. Lì, alla raffinata corte del re Roberto d’Angiò, grazie alle ricchezze del padre e alle sue doti di giovane brillante, riuscì ben presto a crearsi una cerchia di amicizie a lui congeniali; di conseguenza, trascurò la mercatura per dedicarsi agli studi di lettere. Nel 1340, in seguito al fallimento della Compagnia dei Bardi, si ritrovò senza mezzi economici e di lì a poco dovette fare ritorno a Firenze, dove svolse incarichi politici per conto del Comune; inoltre, lesse e commentò pubblicamente nella chiesa di Badia la Commedia di Dante che egli definiva «divina». A dimostrazione della sua ammirazione per Dante, Boccaccio compose un’operetta erudita intitolata Trattatello in laude di Dante, che si può considerare una biografia del sommo poeta, nonché una lode alla poesia in lui rappresentata. Provava ammirazione anche per Petrarca, che conobbe e col quale strinse un’affettuosa e solida amicizia. Nel Decamerone, la sua opera più rappresentativa, è tratteggiata la società del Trecento da cui affiorano le connotazioni psicologiche, sociali e culturali che diverranno protagoniste dell’età moderna.
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Autore: Olimpia Petruzzella
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