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Molfetta e la falsa meteora del centro commerciale…
30 ottobre 2017

MOLFETTA - La profonda crisi in atto negli Stati Uniti, che si sta già riverberando in Europa e, dunque, in Italia, dei grossi colossi della distribuzione a dettaglio, i cosiddetti “malls”, templi dello shopping della classe media e luoghi di incontro e socializzazione già dagli anni 50 (3.600  i negozi chiusi, oltre 8.500 quelli che chiuderanno entro la fine del 2017), offre oggi nuovi e più svariati punti di riflessione sulla questione del centro commerciale  di Molfetta  che tanto clamore  e differenti reazioni suscitò qualche anno fa nella cittadinanza, tra le forze politiche di governo e di opposizione e tra i rappresentanti di categoria.  

Il polo Mongolfiera-Outlet Village della zona ASI, con le sue vetrine scintillanti, il parco giochi, i bar, pizzerie, gelaterie, ecc., venne allora  visto soprattutto da negozianti e imprenditori  come una seria e fondata minaccia al commercio locale, quello detto “di vicinanza”, malgrado  si riconoscesse da più parti che il nuovo flusso di clientela  e visitatori  “esterni”, opportunamente e strategicamente intercettato e convogliato verso la città e i paesi limitrofi, avrebbe potuto fare da volano ad un’economia  stagnante,  incentivando il turismo, offrendo occupazione, reddito, opportunità di vario genere non solo economiche perché, come dice lo scrittore Italo Calvino “le città non sono solo scambio di merci ma anche di  gesti, parole, emozioni, tempo, saperi”.

Il centro commerciale venne percepito come la panacea, ma anche la causa dei mali della città, non tutti si resero conto  o ammisero o vollero ammettere che il settore era già in crisi  per problemi annosi e per ragioni più profonde e strutturali (scarsa propensione  dei  commercianti al rinnovamento, alle strategie di marketing e ai processi organizzativi,  alle tecnologie ed informatizzazione,  poca formazione delle risorse umane, ecc.) e che se non si fosse corso in tempo ai ripari, se non si fossero cercate anche soluzioni di tipo urbanistico (parcheggi, cura del verde, pulizia e decoro delle strade, illuminazione, sicurezza, ecc.) con amministrazioni ed amministratori attenti, sensibili e perspicaci, al fine di rendere la città più allettante e accessibile, la polvere nascosta sotto il tappeto, prima o poi  sarebbe venuta fuori grazie a qualche colpo di vento.

Così è stato, molti negozi del centro hanno chiuso desertificando e spopolando la città, rendendola simile ad un guscio vuoto ma hanno chiuso e stanno chiudendo anche vari negozi del Fashion District, decine di dipendenti, assunti con contratti capestro, rischiano di perdere il lavoro: la folla che si riversa nei week-end intasando per ore la statale 16, più che fare acquisti, mangia pizze e gelati, sonnecchia sdraiata sui divani, è fatta di nonni parcheggiati un po’ ovunque, di bambini iperattivi e adolescenti con gli smartphone che non si parlano tra loro, ma telefonano sempre a qualcuno che non c’è.

La falsa meteora del centro commerciale ha illuminato poco e male: a Molfetta, come in tanti altri posti, ha riproposto la stessa crisi della città, con la diminuzione dei consumi, le spese ridotte all’osso da parte delle famiglie e delle singole persone,  la nuova propensione a silenziosi acquisti on-line, la mancanza di contatto, conoscenza e relazione tra le migliaia di persone che si passano accanto ogni giorno, senza vedersi, né prestarsi attenzione.

Nonostante gli sforzi per tentare di diventare anche poli di aggregazione e promotori di cultura e servizi per la collettività, i centri commerciali, il cui declino, cominciato già da qualche anno, è, secondo gli esperti, lento ed inesorabile, restano i “non luoghi” per eccellenza, così come furono definiti dall’antropologo francese Marc Augè nel 1992, e gli outlet, le finte e malinconiche città ricostruite per soppiantare quelle vere, per mimare una vita che non esiste, rivelano tutta intera quella solitudine urbana che ci abita da tempo, che non riusciamo più a soffocare con lo shopping,  così come un tempo ci piaceva fare.

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Si è trattato solo di profitto, credendo che sarebbe durato in eterno ma, di eterno, non c’è niente. Si inventeranno altre forme di profitto, e così via come un boomerang. “Lucri bonus est odor ex re qualibet” – scrive Giovenale in una delle sue satire della vita a Roma attorno al 100 d.C.. Questa amara visione del profitto non è stata interamente smentita per nessun paese e per nessuna epoca, ma nel mondo moderno, sorto con tanto successo dal dinamismo del capitalismo, il ruolo del profitto è visto in una prospettiva notevolmente diversa. La ricerca del profitto è oggi considerata, con molta fondatezza, come la forza motrice che crea le opportunità economiche e conduce al loro sfruttamento. Per dirla come Keynes, che certo non fu un ammiratore acritico del capitalismo, “il motore che muove l’impresa non è la parsimonia, ma il profitto”. I due aspetti della ricerca del profitto, vale a dire il perseguimento egoistico del guadagno e il ruolo incentivo per ottenere efficienza e buoni risultati, possono essere distinti, e distanti: ma, a partire da “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith, gran parte della teoria economica moderna si è preoccupata di dimostrare i nessi esistenti tra questi due aspetti. Viene in primo piano la preoccupazione di Smith che i segnali di mercato possono essere fuorvianti. Smith, tanto attento alla conservazione e allo sviluppo di quelli che chiama “i fondi produttivi della società”, si sarebbe molto preoccupato dell’impatto ambientale di tante decisioni del mondo degli affari, perché è evidente che in materia di impatto ambientale i segnali del mercato sono carenti. Al giorno d’oggi i “prodighi” e i “progettatori di iniziative chimeriche” possono fare scempio dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo e della schermatura delle radiazioni dannose che supponiamo garantita. E’ stata avanzata, non da ultimo anche in Italia, l’argomentazione stringente che i dirigenti d’impresa sono impegnati a perseguire l’esclusivo interesse degli azionisti e, in quanto di ciò responsabili, solo vincolati all’obbligo di massimizzare i profitti. Deviare da tale finalità potrebbe apparire moralmente giusto, ma secondo questo punto di vista equivarrebbe a disertare le responsabilità morali del mandato ad amministrare e della tutela degli interessi affidati. In un’ impresa sono in gioco i destini di molti e diversi, gruppi di persone, e molti sono quelli che affidano un mandato fiduciario alla direzione d’impresa, tra questi, i lavoratori non meno degli azionisti. Il fallimento di un’impresa è una tragedia per molti, inclusi i lavoratori, e non solo i proprietari del capitale. Abbiamo perso e smarrito la ragione e, con essa, anche le nostre identità.

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