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Molfetta, anatomia nell'arte tra macabro e mistero Francesco Paolo de Ceglia, docente di storia della scienza alla rassegna "Parole di fuoco" organizzata dalla compagnia "Il carro dei comici"
11 febbraio 2011

MOLFETTA - Un relatore geniale. Capace di trattare un argomento come l’anatomia nell’arte, affrontata nel suo percorso storico e quindi con tutte le implicazioni torbide e macabre che ne conseguono, con estrema leggerezza.
Si tratta di Francesco Paolo de Ceglia, docente di Storia della Scienza, che ha relazionato sull’argomento nel primo incontro della rassegna “Parole di fuoco”, organizzata dalla compagnia del Carro dei Comici, presso la propria sede in via Giovine. Gli stessi organizzatori descrivono l’iniziativa come una serie di “incontri con l’arte”, piuttosto che “sull’arte”, ricordando tra l’altro, quasi commossi, il pur insolito patrocinio del Comune di Molfetta.

Il relatore di questa prima “conferenza informale” parte dunque raccontandoci una storia: quella di Santa Chiara di Montefalco, una badessa di cui si decantavano le doti sovrannaturali.
Alla sua morte, viene sviscerata dalla altre sorelle, che rimangono sconvolte alla vista del cuore: una strana concrezione inspessita fa apparire su di esso una croce. Tutto ciò per spiegarci come nel medioevo il corpo ha dignità di rappresentazione solo se racchiude in sé del simbolismo.

Simbolismo, che, al contrario di quanto si possa pensare, non è necessariamente religioso, come possiamo appurare guardando alcune statuette cinquecentesche: gli organi genitali sono qui rappresentati come degli alberelli, i polmoni come omini che muovono degli stantuffi, lo stomaco come una sorta di forno in cui si cucinano i cibi.
Per quanto riguarda la donna, in questa primitiva arte anatomica essa è il più delle volte gravida: la gravidanza è infatti l’unico momento in cui la sua imperfezione è compensata dal fatto che racchiude in sé nuova vita.
In realtà l’anatomia medievale è ben lontana dall’essere una scienza. L’osservazione di ciò che è racchiuso dalla pelle interessa relativamente, dato che la medicina dell’epoca si basa sulla teoria dei quattro umori che si muovono nel corpo: il loro equilibrio garantisce la salute, lo scompenso la malattia. Di conseguenza il medico, con le minime o nulle conoscenze chirurgiche non può tagliare per agire internamente senza peggiorare la situazione, ma può soltanto controllare l’alimentazione.
Il corpo è allora opaco, perché difficilmente si guarda al suo interno; indivisibile, perché non si esamina mai una singola parte. Ma soprattutto i soggetti rappresentati non sembrano coscienti di ciò che l’anatomista realizza su di loro e sorridono imperturbabili, non molto diversamente dai soggetti dell’anatomia attuale, tra l’altro molto spesso maschili così come nel medioevo.
Nel 500 sarà proprio un nano, Andrea Vesalio, che in una società che facilmente sarebbe riuscita a isolarlo per la sua conformazione, riesce a rivoluzionare il modo di intendere l’anatomia.
Con lui assume importanza l’osservazione diretta del cadavere reale, piuttosto che il desiderio di riscontare anche forzatamente nella realtà quanto illustrato nei libri, come dimostrano le tavole nel quale il soggetto è ancora legato alla corda con cui è stato impiccato.
Non manca però in questo periodo un sadismo molto spinto: la dissezione è spesso effettuata senza reali scopi conoscitivi.
Questo gusto dell’orrido si riscontra in particolar modo nelle opere del noto ceroplasta Zumbo, di un secolo più tardo: gli ammassi di cadaveri putrefatti, scuri, convulsi sembrano raccontare che il nostro corpo è un paradosso, che si tiene insieme quasi “in barba alla natura” permettendo con alcuni meccanismi la coesistenza di elementi chimicamente incompatibili.
Opere come “il trionfo del tempo” comunicano un forte senso di smarrimento, quasi a raccontare il destino dell’uomo senza Dio: si tratta infatti di un “presepe senza Dio” in cui Gesù è sostituito da alcuni lividi cadaveri di bambini morti, in un ripugnante clima di decomposizione.
Di estremo interesse è anche la testa modellata intorno a un vero cranio (si tratta però di un caso isolato e non di una prassi consolidata), con grande realismo anatomico. Differentemente dai tricofobici, perfetti e giovanissimi attuali soggetti anatomici, essa mostra uno spietato realismo, che si riscontra nella barba canuta, nel sangue che scorre, nell’espressione di sofferenza e nel verde della decomposizione, quasi a voler dimostrare di aver realmente visto ciò che si è rappresentato.
Insomma, se già nel Rinascimento si inizia a osservare il corpo morte reale, spesso isolandone una parte per semplicità d’analisi, l’universo barocco è ancora più concentrato sul sofferente e il decomposto.
 Ricollegabile a questa attenzione al dolore del corpo squarciato è la venere anatomica, oggi visitabile presso il museo della Specola a Firenze, nel cui volto leggiamo un’espressività languida tra l’agonia e l’estasi. Anch’essa è una donna gravida, scomponibile a vari livelli che, anche se usata proprio dai ragazzi che studiavano medicina, presenta un’incoerenza: il feto è troppo sviluppato per la sua apparenza esteriore, con ventre poco pronunciato e seno non ancora molto appesantito. Insomma, per quelli che erano i canoni, una donna perfetta dentro e fuori. Tanto perfetta da suscitare i desideri libidinosi degli studenti, al punto che fu necessario rimodellare l’utero che era stato modificato dalle mani che vi scivolavano.
Il perbenismo vittoriano ottocentesco vestirà queste veneri rendendole anche grottesche: queste verranno poi spogliate all’occorrenza dagli studenti, mentre sono paradossalmente celate alla vista delle donne.
Curiosa ma inquietante è, ancora, la storia di Frederik Ruysch, il quale ogni qual volta moriva un bambino se lo faceva spedire per sperimentare tecniche di conservazione. Il più eccezionale esempio è quello di una manina, rimasta cromaticamente inalterata e con una quasi incredibile morbidezza: i processi che l’hanno mantenuta in tale stato ci sono tuttora ignote.
Il culmine del macabro-morboso è però costituito da un fenomeno attuale. Si tratta delle mostre di von Hagens, in cui cadaveri reali, immersi in acetone e plastinati affinché si conservino nel tempo, assumono le più strambe posizioni nelle più assurde situazioni, fino a quella, michelangiolesca, di un uomo che regge la propria stessa pelle.
La mostra è stata rifiutata da molti paesi cattolici come l’Italia, ma si è diffusa in tanti altri ed è stata addirittura clonata dai cinesi. Sembra assurdo, ma migliaia di persone hanno già richiesto, che, alla loro morte, il cadavere sia utilizzato nelle composizioni di Von Hagens.
Ma la domanda tra noi uditori sorge spontanea: qual è il confine tra la scienza (e l’arte) e la morale?
La risposta non è semplice, ma il professor De Ceglia ci rivela la sua opinione: anche se i più si giustificano parlando di un connubio tra anatomia e arte in realtà questa mostra permette una conoscenza anatomica molto superficiale e di gran lunga inferiore a quella che ci può consentire lo studio sui libri. Neanche d’altro canto si può parlare di una vera e propria arte, dato che più che arte esso è un fenomeno commerciale. Ciò che ci affascina, allora, è il confine sottile con l’inconoscibile che immancabilmente ci attrae.
Se per il nostro modo di concepirla anche la cripta dei cappuccini di Roma può infatti essere ugualmente inquietante, essa racchiude in sé un misticismo ben più intenso, che si fa ancora più forte nell’idea, simbolica,che i corpi continuino a dirigere la chiesa fisica. Visitare una mostra di Von Hagens è sì, a suo modo, un’esperienza mistica, ma di un misticismo commerciale, che scatena una sfera emozionale perversa e morboso. Ma, d’altro canto, come lo stesso relatore ammette, anche lui stesso subisce il fascino degli argomenti che in caso contrario non avrebbe trattato in questa conferenza; e immancabilmente, nell’ascoltare, ci siamo resi conto di quanto tutti noi siamo un po’ attratti dal perturbante, dal mistico, dal morboso, ricordandoci di quella parte oscura che, pur nascosta e repressa, agisce misteriosamente in ognuno di noi.
 
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Autore: Giulia Maggio
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La giornalista Giulia Maggio si chiede e ci chiede: “ Qual è il confine tra la scienza (e l'arte) e la morale”? Una risposta: la stessa che c'è fra l'uomo e la libertà. Una rappresentazione particolarmente significativa è data dal mito biblico dell'espulsione dell'uomo dal paradiso. Il mito fa risalire l'inizio della storia umana a un atto di scelta, ma fa cadere l'accento sulla peccaminosità di questo primo atto di libertà, senza il quale, non ci sarebbe stata la scienza, l'arte, la morale, e la sofferenza che ne deriva. L'uomo e la donna vivono nel giardino dell'Eden in completa armonia tra loro e la natura. C'è pace e non c'è alcuna necessità di lavorare; non si pone alcuna scelta, e non esiste né la libertà né la riflessione. All'uomo è vietato mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male. Egli agisce contro il comando di Dio , infrange lo stato di armonia con la natura di cui fa parte senza però trascenderla. Dal punto di vista della Chiesa, questo è nella sua essenza peccato. Dal punto di vista dell'uomo, però, questo è l'inizio della libertà umana. L'agire contro il comando dell'autorità, il commettere il peccato è nel suo aspetto umano positivo il primo atto di libertà, ossia il primo atto umano. L'atto di disobbedienza, in quanto atto di libertà è l'inizio della ragione. L'uomo ha fatto il primo passo per diventare umano diventando “individuo”. Il mito mette in risalto la sofferenza che ne deriva da questo atto. L'uomo è nudo, solo e libero, e tuttavia ha paura. La libertà appena conquistata appare già una maledizione. Piano, piano e sempre in crescendo, avviene il processo di liberazione; da una parte è un processo di sviluppo della ragione e del potere umano, dall'altra un crescente isolamento, insicurezza, il significato della propria vita. Ne segue una seconda domanda: “Ne è valsa, e ne vale la pena?” – Io rispondo: SI, SI, SI.

3°Parte - . Questa virtù aveva trovato una sua formulazione in una delle parole simbolo della Rivoluzione francese: fraternitè, che ha avuto meno fortuna delle altre due: egalitè e libertè. Sull'uguaglianza e sulla libertà sono nati comunismo e capitalismo, sulla fraternità non è nato ancora un bel niente. Ma senza fraternità il capitalismo non può che ritornare a essere selvaggio, e il comunismo non può trovare altra espressione di quella che storicamente ha avuto. Per la cultura della fraternità, le religioni non servono granchè. Per quanto amore predicano, non riescono mai a essere credibili, perché chi ritiene di possedere la verità assoluta non può considerare gli altri diversamente che come erranti. Le varie encicliche dei pontefici che si succedono non fanno che ribadire questo concetto. La famiglia è una struttura chiusa, perché ha come suo vincolo il sangue, non la cultura. Tra religione, famiglia e scuola, una lezione sulla fraternità può venire solo dalla scuola. Per scuola s'intende la scuola privata, perché accoglie tutti: stranieri, ricchi e poveri, bianchi e di colore, gli abili e disabili. E' la più idonea a diventare una “fucina, quel laboratorio in cui può nascere e fiorire quella “cultura della fraternità” a cui solamente gli uomini possono riferirsi, non solo per un salto di qualità nel regime della convivenza, ma addirittura per scorgere la condizione stessa della loro convivenza, in un mondo che i mezzi di comunicazione e di trasporto hanno trasformato in un unico vicinato. (fine)

Il confine tra la scienza e morale! Fa riflettere questo passo tratto dal romanzo di Dan Brown, "Angeli e demoni". "Ha vinto la scienza. Ma questa vittoria ha avuto un prezzo. E molto alto. La scienza avrà anche alleviato le sofferenze della malattia e la pesantezza del lavoro, ci avrà anche fornito una miriade di gadget per il nostro divertimento e la nostra comodità, ma ci ha lasciato in un mondo dove non esiste più la meraviglia. I nostro tramonti si sono ridotti a frequenze e lunghezze d'onda. La complessità dell'universo si è trasformata in una serie di equazione matematiche. La nostra concezione del valore della vita umana è stata sfatata. La scienza afferma che la terra e i suoi abitanti sono solo puntini insignificanti nell'immensità dell'universo. Un'accedente cosmico. Persino la tecnologia che promette di unirci ci divide. Oggi ognuno di noi è elettronicamente collegato a tutto il resto del pianeta e tuttavia ci sentiamo sempre più soli. Siamo bombardati dalla violenza, da divisioni, conflitti e tradimenti. Lo scetticismo è diventato una virtù. Ormai le doti dell'uomo intelligente sono il cinismo e la continua ricerca della prova scientifica. Non c''è da stupirsi se oggi giorno gli esseri umani si sentono più depressi ed impotenti che in passato. Chi è questo Dio della scienza? Chi è questo Dio che da ai suoi uomini il potere, ma non le regole morali per usarlo? Quale Dio da il fuoco ai suoi figli senza avvertirli che è pericoloso? Il linguaggio della scienza non ci dice ciò che è bene e ciò che è male. I manuali scientifici ci spiegano come provocare una reazione nucleare, ma non ci chiedono di riflettere sulle sue implicazioni morali". Resto in attesa del pensiero di "Sono stato un ragazzo dell'Azione cattolica".


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