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Molfetta, al Ghigno con Lea Barletti: il teatro che dice se stessi
13 dicembre 2008

MOLFETTA - Nel dibattito con l'attrice Lea Barletti, ieri sera alla libreria “Il Ghigno”, sembrava essere recuperata una dimensione umana di fare cultura. Una dimensione distante dalle tante scenografiche apparizioni povere di contenuto, che mirano a stupire per la grandezza, per i numeri, e che punta a concentrarsi sull'individuo, sulle sue paure, sulle sue angosce. Su quelle domande che assillano la vita di ciascun uomo, e in particolare di ogni adolescente, pretendendo delle risposte che siano vicine, autentiche, pur nel mondo caotico di quelle scenografie mostruose. Un mondo che ha soffocato ogni tentativo di comunicazione da parte di Sebastian Bosse, liceale diciottenne che nel Novembre 2006 uccise diversi suoi compagni di scuola nella cittadina di Emstetten, Germania. Un drammaturgo tedesco trovò su youtube il video testamento di questo ragazzo, scrivendone un testo. E' stata la lettura di questo testo a indurre Lea Barletti (Manifatture Knos/Induma Teatro-Lecce) a comunicare questo dolore reale, questa voglia di uscire fuori dall'isolamento del mondo contemporaneo del ragazzo. “Che cosa si può fare con un dolore così? Avevo bisogno di parlarne, di far sentire le parole del ragazzo”, dice l'attrice, che ha deciso di “prestare” il proprio corpo a quelle domande, a quei dolori a cui sappiamo non esserci risposta. Lo spettacolo, "Tra 1 ora e 12 minuti" si inserisce nella rassegna proposta dal collettivo “gli Alchemici”, nell'ambito del laboratorio teatrale “Alchimia del teatro”. Un laboratorio che mira a far mettere in gioco l'attore, a conoscere il proprio corpo, come ricorda Giulio Bufo. Il progetto, sottotitolato “Dall'attore allo spettatore”, punta dunque a far crescere anche il pubblico, soprattutto facendo riflettere su se stessi. E' per questo che gli spettacoli proposti si distinguono per una scenografia povera e per il carattere fortemente introspettivo. Nello spettacolo, infatti, la scenografia è costituita esclusivamente da un banco, una fila di luci e un fazzoletto. Si tratta di un esperimento che, oltre a Molfetta, si sta provando solo a Bari e a Trani ad opera di altre due compagnie. Emerge, dalle voci intervenute del dibattito, l' esigenza di prestare più attenzione alla propria identità, ai caratteri distintivi di se stessi soffocati dalla società dell'apparire. La Prof.ssa Isa de Marco afferma con certezza che “Molfetta non ha più le forze genuine che fino a qualche anno fa riuscivano a coagularsi attorno ad iniziative”. Ma il regista Werner Waas è pronto a dire che “quanto tutto va malissimo comincio a diventare ottimista”. Il teatro, del resto, serve proprio a questo: ad ascoltare se stessi recuperando un'arte lenta ma “catartica”.
Autore: Giacomo Pisani
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