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Michele: tornare? Credo proprio di no…
15 settembre 2005

E' questo l'articolo che, più di tutti, non avrei mai desiderato scrivere. Provoca un'amarezza indicibile spiegare perché sono stato “costretto”, a 24 anni, ad andar via dalla mia città, Molfetta, per motivi di lavoro. Ho sempre sentito miei concittadini parlare di propri parenti trasferitisi al Nord Italia in cerca di lavoro, ma non ci avevo mai badato troppo, sia perché vedevo il momento lontano, sia perché pensavo che non sarebbe capitato “proprio a me”. E ne ero convintissimo quando, con una fresca laurea in Beni Culturali conseguita con il massimo dei voti presso l'Università di Lecce, nel luglio del 2004, cominciai la mia ricerca di un'occupazione. Ero certo che la mia terra non avrebbe respinto le mie ambizioni (legittime). E così presi a girare portali su internet, a rispondere ad offerte di lavoro, a chiedere, a tentare improbabili colloqui. Ero perfino disposto a cambiare area di ricerca, a non fossilizzarmi, come magari voleva la logica, sulla mia specializzazione in arte. Anche perché, ad onor del vero, l'Università non mi ha sostenuto, non mi ha dato suggerimenti o indicazioni. Le proposte erano, per la maggior parte, riguardanti ruoli di agente, di venditore porta a porta, alcune dei quali senza alcuna garanzia di fisso mensile. Non volevo apparire schizzinoso, e così ho sostenuto anche qualche colloquio. Posso dividere gli esiti in due categorie: in alcuni casi erano opportunità letteralmente improponibili, in altri sembrava stessero facendo un favore ad ascoltarti. E il tempo passava… Tutto ciò mi portava ad essere nervoso, non accettavo che dopo aver studiato tanti anni, con i relativi sacrifici, non riuscivo a trovare niente. Fino a che un giorno non ho ricevuto una proposta di colloquio a Milano. All'inizio non è che fossi molto convinto, ma pensai di andare comunque, tanto non avevo molte speranze di essere preso. Ed invece… Un modo di fare totalmente diverso, una professionalità ammirevole, con la visibile voglia di fare di tutto per mettermi a mio agio. Dopo aver visto che potevo essere la persona giusta per loro, la loro preoccupazione era se lo stipendio che mi proponevano fosse troppo basso, o se potevano aiutarmi per cercare un'abitazione. Come rifiutare? Certo, in ballo c'era la distanza con gli affetti più importanti, con tutta la mia vita qui a Molfetta. “Ora posso scegliere io di andare – mi sono detto – tra qualche anno potrei essere costretto a farlo”. Così mi sono deciso, e sono partito. Sono oltre quattro mesi che sono su a lavorare, ed è stata la scelta più giusta che potessi fare. Ho un contratto di un anno che ha moltissime possibilità di essere rinnovato, uno stipendio adeguato, la possibilità di progettare la mia vita. Cose impossibili nella mia terra, un particolare che trovo profondamente ingiusto. Amo Molfetta e il Sud, ma ora non ci tornerei a lavorare, tranne se costretto da eventi non dipendenti da me. Ora mi sento realizzato, e non importa se devo fare qualche sacrificio, affrontare viaggi di andata e ritorno (quasi 2.000 km in totale) in un weekend per vedere le persone che amo per dodici ore. Sempre meglio che restare un abbozzo di professionista, o essere costretto a cercare un lavoro in nero, magari retribuito anche male. Signori politici, qui non importa che si sia di destra o sinistra, la sostanza è una sola: bisogna fare qualcosa al più presto, altrimenti il Sud diventerà la miniera dei “cervelli” per il Nord, e così il gap aumenterà inesorabilmente. O sarà troppo tardi. Michele Bruno michele.bruno@quindici-molfetta.it
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