Torna su queste pagine Marisa Carabellese con un dolcissimo racconto. E' da non molto che si parla di Marte, della possibilità di vita sul pianeta, vita non certo come la nostra, forse batteri o altro non visibile a occhio nudo. Ma a volte non sono gli altri esseri a non esistere, siamo soltanto noi che non riusciamo a vederli. E' questo il messaggio che l'autrice molfettese ci lascia insieme a un profondo messaggio d'amore in questa bellissima storia. (d. a.)
Mi son resa conto che non lo incontravo da mesi quando mi sono seduta vicino a lui, casualmente, su una panchina del lungomare. Avevo camminato parecchio, ma soprattutto volevo godermi l'ultima luce del tramonto. Sono meravigliosi i nostri tramonti, ne ha scritto perfino Victor Hugo. Di fronte a me il mare trascolorava con i colori tenui del crepuscolo imminente, era una sconfinata distesa serica, appena increspata. L'uomo sedeva con la testa fra le mani, e lo riconobbi solo quando alzò il capo. Smagrito, con i capelli quasi completamente bianchi e lo sguardo smarrito, come chi torna da una grande distanza e stenta a riconoscere i luoghi.
- Buonasera! - E' da un po' che non lo incontravo. - E la sua figliola come sta? Non l'ho mai visto senza di lei.
- Come, non lo sa? – la sua voce è un sussurro roco – Non c'è più.
- Mi perdoni, non sapevo nulla. - Fra l'altro non conoscevo neanche il loro cognome, quindi se ci fossero stati manifesti funebri non li avrei notati. Li incontravo spesso, abitavano nei pressi di casa mia. Li avevo notati, sin dai nostri primi incontri, padre e figlia, sempre insieme, lui un uomo attraente, se non fosse stato per il portamento un po' curvo, quasi umile, un atteggiamento non so se da timido o da sconfitto; la figlia una ragazza bruna, alta e piuttosto goffa, forse per il suo abbigliamento, gonne ampie e lunghe e golf abbondanti che facevano comunque supporre una figura armoniosa.
- Ma… quando è successo? - chiedo con voce malferma.
- E' andata via alla fine di agosto - siamo alla fine di un ottobre insolitamente caldo – è tornata dai suoi. - Vede la mia espressione disorientata. - Va bene, le racconto tutto, ho bisogno di parlare con qualcuno, se no impazzisco. La conosco, so che lei è una persona buona, posso fidarmi, ma nessuno deve sapere quanto le confiderò. Può restare qui per un po'?
In che pasticcio sarò andata a cacciarmi… Poi lo guardo in faccia e decido istintivamente di fermarmi ad ascoltarlo. - Va bene, mi dia solo un minuto per telefonare a mia sorella, mi sta aspettando, dovevamo andare insieme a casa di amici, le dirò di precedermi - Chiamo mia sorella col cellulare. I colori del cielo, già tenui e madreperlacei, sfumano nell'indaco, c'è anche una falce di luna che sta sorgendo.
- Non era mia figlia, - esordisce – ma l'amavo più che se fosse stata mia. E' cominciato tutto dieci anni fa, lavoravo a Brindisi, negli uffici della Capitaneria di Porto. Cominciavano gli sbarchi dei clandestini, degli extracomunitari, e quell'estate ce ne fu uno di proporzioni enormi. Erano quasi tutti albanesi: centinaia di uomini, donne, bambini, dai volti smagriti e gli occhi allucinati che furono rifocillati, rivestiti alla meglio dalle associazioni di volontariato, caricati tutti sui camion militari e portati nel capoluogo. Erano partiti tutti ed io mi ero fermato per fumare una sigaretta col Nostromo quando la vidi: era dietro una cassa di legno, sporgeva fuori la testa e mi guardava con due occhi grandi, scuri, fermi.
- E lei chi è? -, chiesi al Nostromo.
- Santo cielo, l'hanno lasciata qui! - esclamò questi costernato. Mi avvicinai alla bambina, le tesi la mano e la prese, si lasciò condurre docile, senza paura.
- Chi sei? – le chiesi – come ti chiami?
- Io…Lei - disse decisa, puntandosi un dito sul petto.
Il Nostromo rise: - Può anche darsi che si chiami così, che ne sai, può essere un diminutivo.
- E va bene, Lei, ma ora che ne facciamo di te?
Non potevamo mandarla a raggiungere gli altri, l'unica era affidarla a un istituto. La guardai: piccola, sola, dall'apparente età di dieci, undici anni, e quello sguardo che non mi interrogava ma esigeva. Non potevo lasciarla andare.
- Senti – dissi al Nostromo – stasera la porto a casa mia, a mia moglie andrà bene, le piacciono i bambini e a noi non ne sono arrivati, lo sai, domani cercheremo di sapere se i suoi genitori, se ne ha, sono con gli altri. Così feci ed entrò nelle nostre vite. Di ricerche ne facemmo e tante, ma sembrava che non la reclamasse nessuno e che lei non cercasse nessuno.
- E se la tenessimo noi? - chiese una sera mia moglie a bassa voce.
Le andai vicino, la strinsi forte a me: - Non osavo chiedertelo, ma è quello che voglio anch'io. - Ne ottenni prima l'affidamento e in seguito potemmo adottarla legalmente. Imparava presto, in modo sconcertante perché sembrava che le cose le sapesse già e le tirasse fuori solo quando lo voleva. Il suo nome rimase quello, per i documenti mettemmo il nome di mia madre, ma per noi fu sempre e solo Lei. In casa con noi era tranquilla, docile, sembrava contenta, non chiedeva di uscire, di andar fuori da sola, di aver amiche. Usciva con me, meno con sua madre. Mia moglie l'amava molto, ma alle volte sembrava ne avesse soggezione, che so, come un po' paura, ma mi dicevo che erano mie fantasie. Non l'ho mai sentita piangere o ridere. Leggeva moltissimo, le feci un abbonamento a un club del libro e di libri in casa ne arrivarono tanti. Perché negarglieli? Chiedeva così poco! Leggeva con una concentrazione totale, come se volesse memorizzare ogni riga, ogni parola, ogni concetto. Spesso la sorprendevo seduta al tavolo del tinello che riempiva fogli di cifre, calcoli, diagrammi, così mi sembravano, fogli che copriva subito con altri fogli bianchi e che non ritrovavo più. Ma allora non ci facevo caso. Una volta le ho regalato un cuore di corallo, un piccolo cuore di corallo rosso appeso ad una catenella d'argento. Lo mise al collo e non lo tolse più. Avevo visto che in margine ai fogli che riempiva disegnava sempre tanti piccoli cuori, sempre uguali, sempre con la stessa forma non proprio regolare. Avevano tutti, come posso dire, come una lieve sbreccatura su un lato.
Il cielo è ormai scuro, richiamo mia sorella, le dico che non mi aspettino più. La luna è alta alla nostra destra e sta sorgendo il Pianeta. Ormai non ha più la nitidezza del mese scorso, si sta allontanando dalla terra. Se non ci fosse stato tutto il fracasso dei mesi scorsi non lo avremmo forse notato, e invece i giornali, la televisione, hanno cominciato a bombardarci di messaggi al riguardo. Abbiamo appreso così che l'ultimo essere umano che lo ha visto così vicino è stato l'uomo di Neanderthal, 60.000 anni fa, e invece il Pianeta si avvicina ciclicamente alla terra, con una approssimazione più o meno simile, ogni dieci, dodici anni, perché nella sua orbita si trova in opposizione al Sole. E' solo che ora è possibile mandarci delle sonde e si avvicina la possibilità di una missione dell'uomo. Si è poi fatto un gran parlare della possibilità di vita sul Pianeta.
- Ricordo che una volta ne abbiamo parlato con Lei, - mi stava dicendo il mio interlocutore che aveva notato la direzione del mio sguardo – avevo letto diversi articoli su riviste scientifiche divulgative, e le dicevo che sul Pianeta rosso, il pianeta del fuoco, non avrebbe potuto esserci la vita data la labilità della poca atmosfera, le fortissime escursioni termiche, i venti violentissimi che creano tempeste di sabbia. Chissà, forse milioni di anni fa ci potrebbe essere stata la presenza di acqua, che forse è ancora sotto la roccia. Lei mi guarda con uno sguardo indecifrabile e quel suo sorriso etrusco.
- Ma perché gli esseri umani continuano a pensare che ci siano possibilità di vita solo pensando alle loro possibilità di vita?
Le diedi ragione e continuai a erudirla sull'etimologia del nome del Pianeta, sulle sue due lune dai nomi spaventosi che evocano paura e terrore. Mi ascoltava apparentemente tranquilla, ma sembrava volesse contestare quello che le andavo dicendo e nel contempo non volesse dispiacermi. Riprese a riempire i suoi quaderni di cifre, di numeri, di diagrammi. Ma perché non capivo? O forse non volevo capire. Poi non ne parlammo più. Dopo la morte di mia moglie, tre anni fa, il mio legame con Lei si era rafforzato ancora di più. L'aveva curata durante la sua lunga, dolorosa malattia, con una dedizione totale, ma quando mia moglie diventò meno vigile notai una cosa strana: la guardava con una espressione smarrita, come se non la riconoscesse, e avrei potuto pensare a una smemoratezza conseguente al suo male se non fosse stata completamente lucida per tutto il resto. Dopo la morte di mia moglie ottenni il trasferimento e siamo venuti qui. Lei non ha voluto continuare la scuola e non ho insistito, sembrava, che sapesse già tutto quello che le serviva. Forse lo capisco solo ora.
Si interrompe: il Pianeta è ora alto nel cielo scuro, lo guarda con odio. - Maledetto! - esclama. Lo guardo frastornata ma non dico niente, è tutto talmente incredibile. – Poi i media cominciarono a parlare del 27 agosto, la data del maggior avvicinamento del Pianeta. Si era agli inizi del mese. Di giorno in giorno la abituale calma di Lei sembrò sconvolgersi. Era inquieta, agitata, scriveva freneticamente sui suoi quaderni, ma con me era ancora più dolce, a volte avevo l'impressione che volesse dirmi qualcosa, ma non la sollecitavo, come se non volessi sapere. Da anni andavamo a trascorrere l'estate in una piccola casa sul mare, nei pressi di Brindisi. Insistette perché ci fermassimo per tutto il mese di agosto.
La sera del 27 agosto era calma e limpida. Il Pianeta, sempre ben visibile a occhio nudo, dominava nel cielo nero, grande, rosso, inquietante, Non volevo andare a letto, Lei sedeva di fronte a me e mi guardava. Non riuscivo a decifrare il suo sguardo, c'era una sorta di pena, di compassione, nei suoi occhi. Mi sono addormentato sulla poltrona. All'alba mi sono svegliato indolenzito per il vento fresco che arrivava dalla porta-finestra che dava su una piccola veranda. Era aperta. Ho chiamato ripetutamente Lei con il cuore che mi batteva forte, sono andato nella sua stanza. Il letto era in ordine, i suoi vestiti, anche quelli che indossava la sera prima, al loro posto e così i suoi libri, le sue poche cose, mancavano solo i suoi quaderni e la catenella d'argento con il cuore di corallo. Allora ho capito che erano venuti a riprenderla. Sono uscito sulla veranda singhiozzando e gridando il suo nome, per fortuna non c'era nessuno in giro. Sono tornato qui. A quelle poche persone, conoscenti occasionali con i quali scambiavo un saluto ho detto che mia figlia aveva ritrovato i suoi parenti ed era tornata in Albania. Nessuno ha indagato oltre. Sapesse come è facile sparire! Come un forsennato ho ripreso a leggere tutto quello che riguarda il Pianeta, in un certo modo a prepararmi…
Lo guardo, così infervorato, e mi si stringe il cuore.
- Dieci giorni fa sono andato a una conferenza. L'oratore ha parlato con competenza e in modo chiaro e piacevole e poi, fra le foto che ha mostrato, riprese dalle sonde spaziali, ne ha mostrata una, uno sprofondamento nella roccia del suolo del Pianeta, che appariva convesso, e invece era concavo, e disegnava una forma precisa, inequivocabile, un grande cuore! Tutto ha cominciato a girarmi intorno. Era, senza alcuna possibilità di dubbio, il cuore che centinaia di volte aveva disegnato Lei sul margine dei suoi quaderni, con la stessa evidentissima sbreccatura su un lato. Era un suo messaggio, lo capisce? Ora so che tornerà, o forse potrò andare io a raggiungerla. Mi crede? – continua a ripetermi sorridendo fra le lacrime. Mi prende un braccio, lo scuote. – Mi crede?”
Beh, io gli credo.
Marisa Carabellese