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Le voci della notte La confessione Il Racconto
15 novembre 2013

Il paese ai piedi della collina era già immerso nell’ombra, cominciavano a fumare i comignoli, ad illuminarsi le finestre delle piccole case, tranne che nella grande casa padronale, discosta dalle altre come in un arrogante isolamento, disabitata ormai da decenni. La chiesa sulla collina si stagliava su un cielo livido nel crepuscolo invernale e nel boschetto cominciavano i fruscii, i sibili, i suoni come un lieve alitare di vento: le voci della notte, voci di creature venute da chissà quale regione astrale che ormai don Savino era sicuro che in qualche modo riuscisse a comprendere. Entrò nella Chiesa immersa nell’ombra, solo la fiamma tremolante della lampada davanti al Tabernacolo e qualche candela nelle cappelle laterali diradavano l’oscurità ormai invadente, ma gli piaceva restare così, lasciare la porta aperta anche se ormai non sarebbe salito più nessuno dal paese, e finalmente poter recitare Compieta. Aveva fatto tardi, erano saliti su dei giovani che volevano confessarsi o parlare con lui e questo aveva sempre la precedenza. Assaporava e meditava le parole della Liturgia delle Ore che da secoli invocavano l’aiuto del Signore al giungere della notte: “Fratres, sobrii estote et vigilate: quia adversarius vester diabolus tamquam leo rugiens circuit…” (Fratelli, siate temperanti e vegliate, perché il demonio, vostro avversario, vi sta attorno come un leone che ruggisce…). Recitò il Confiteor, chiese l’assoluzione dei suoi peccati e l’aiuto del Signore. “Deus, in adjutorium meum intende” (O Dio, vieni in mio aiuto). Il salmo n. 90 era l’affidarsi a Dio e rimettersi nelle sue mani, e il salmo 4 una meditazione sulla confidenza assoluta in Dio. “Non timebis a terrore nocturno a sagitta volante in die” (Non avrai paura di incubo notturno o di freccia che scocchi a giorno fatto) “Super aspidem et vipera gradieris/ conculcabis leonem et draconem.” (Passerai sopra l’aspide e la vipera / e calpestar potrai leoni e mostri.) Scorrevano le parole della preghiera liturgica e fuori il buio calava rapidamente. “Dedisti laetitiam in cor meum / majorem quam cum abundant tritico et vino.” “Ecco hai dato serenità al mio cuore / maggiore di quando sovrabbondano grano e vino.” Sì, il suo cuore era pieno di serenità e letizia. “Te lucis ante teminum /Rerum Creator poscimus… Creatore della cose, prima che la luce finisca ti preghiamo...Procul recédant somnia/ et noctium phantasmata, (che i sogni e i fantasmi della notte fuggano lontano da noi…”) Avvertì nella Chiesa una presenza estranea, ma senza alcuna apprensione: era benvoluto da tutti, non c’era niente da rubare in Chiesa e le sue mani da ex pugile all’occorrenza sarebbero state sufficienti a difenderlo. “Visita, quaesumus Domine, habitationem istam et omnes insidias inimici, ab ea longe repelle…” (Visita, Signore, te ne preghiamo, questa abitazione e allontana da essa ogni insidia del nemico…) “Domine, exaudi orationem meam” (Signore, esaudisci la mia preghiera) “et clamor meus ad Te veniat” ( e il mio grido giunga fino a Te), rispose una voce soffocata nell’ombra. Si girò lentamente, vicino al vecchio confessionale di legno una figura imponente, avvolta in un mantello con un cappuccio che ne nascondeva parzialmente il volto, un abbigliamento ancora in uso fra la gente anziana del paese. L’uomo si avvicinò ma non abbassò il cappuccio. “Beneditemi, Padre, perché ho peccato”, disse con voce soffocata. Don Savino sedette sulla panca di fronte al Tabernacolo e fece cenno all’uomo di sedergli a fianco. “Assolvetemi, Padre, se potete, perché ho peccato, – ripeté l’uomo – ho ucciso mia moglie”. Don Savino sentì il cuore mancargli un battito ma non si mosse. “E’ da tanto che non ho pace, non l’ha mai saputo e non lo saprà mai nessuno e nessun giudice potrebbe condannarmi, ma io non ho pace, – ripeté l’uomo con disperazione – nessuna violenza apparente, ma ci sono tanti modi per uccidere. Lei me l’avevano quasi imposta, le nostre famiglie auspicavano questo matrimonio che avrebbe oltretutto rimesso in sesto le finanze alquanto dissestate della mia, di grande censo, ma economicamente in fase discendente, soprattutto per colpa mia. Appena la vidi mi sembrò un animaletto impaurito: non brutta, il fisico delicato e i lineamenti aggraziati, gli occhi dolci e teneri, ma ne provai un senso di fastidio proprio perché la immaginai sensibile e remissiva, avevo bisogno di una donna che mi tenesse testa. Per lei fu amore a prima vista. Ci sposammo, e dopo i primi giorni cominciai a trascurarla, la nostra casa era molto vasta, e appena alzato mi ritiravo nelle stanze che mi ero riservato o andavo via, anche per settimane, senza avvertirla, c’era personale in abbondanza e non le sarebbe mancato niente. Bloccavo tutti i suoi slanci, anche quando trascorrevamo insieme la notte nella speranza di un erede, ma il mio rapporto con lei era frettoloso e senza alcun trasporto, senza un gesto di tenerezza. Al mattino vedevo i suoi occhi sempre più tristi e delusi ma ignoravo i suoi patetici tentativi di ottenere da me qualche cosa di più. Cominciò a deperire, ormai passavano mesi fra una mia sosta e l’altra e qualsiasi suo tentativo di convincermi ad accompagnarmi nei miei viaggi era frustrato sul nascere, Mia madre le voleva bene ma abitava molto distante da noi e si vedevano poco e così accadeva con le poche persone della sua famiglia, ormai viveva isolata, non veniva con me che in rare occasioni, quando gli sporadici e inevitabili rapporti sociali lo rendevano indispensabile, mi innervosivano la sua spontaneità e la sua freschezza che ritenevo sprovvedutezza e che invece i miei amici apprezzavano. Avrei dovuto rassegnarmi alle raccomandazioni dei medici che mi esortavano a non cercare di avere figli, era facile, dopotutto, perché non l’avvicinavo più, invece una sera sono rientrato ubriaco, avevo bevuto fino a stordirmi e sono entrato nella nostra stanza, era già a letto, mi guardò con sgomento e io la presi con violenza. Lei non si ribellò, partii la mattina dopo alle prime luci dell’alba, ormai sobrio, vergognandomi e senza un parola. Non la rividi più, morì quattro mesi dopo con il bambino che aveva nel grembo, un maschio, mio figlio. L’uomo tacque, sembrava esausto, le fiammelle vicino all’altare si spegnevano. Don Savino non disse una parola, il pentimento dell’uomo era evidente, nascose il volto fra le mani e poi, senza alzare il capo, pronunciò la formula antica che può liberare l’uomo dalla colpa e riportare la pace, “Ego te absolvo…” Quando sollevò il capo l’uomo non c’era più. Don Savino uscì fuori dalla Chiesa, le voci della notte ormai tacevano, appena un primo chiarore oltre il paese ai piedi della collina, una spirale di fumo grigio da un comignolo saliva nel cielo livido, la grande casa padronale nella luce incerta sembrava galleggiare nella foschia, come la proiezione di un sogno. Don Savino rabbrividì e lentamente alzò la mano destra in un gesto di benedizione: “Riposa in pace”, disse piano.

Autore: Marisa Carabellese
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