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Le trame leggere di Raffaele Cappelluti
15 giugno 2019

L’arte di Raffaele Cappelluti ci pare fondarsi su alcuni assunti di base, condensati nella bella mostra inaugurata presso la Fondazione musicale Vincenzo Maria Valente, con il patrocinio del Comune di Molfetta e del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, in data 18 maggio. Significativa la scelta di elementi restituiti alla terra dall’abbraccio del mare e, in un “sapiente gioco di riutilizzo e ricodificazione” (come ha lucidamente notato Marino Pagano) ricontestualizzati e resi al contempo artefatti e oggetti estetici. L’azione di recuperare materiale abbandonato – la copertina di cartone di un vecchio libro trovato in spiaggia, per esempio – o, secondo quanto ci ha raccontato l’artista, “tasselli di vecchie pedane” e tavole rigettate dalle onde “da chissà dove” risponde all’intento di valorizzare la bellezza ferita di ciò ch’è comunemente classificato come inutile o inservibile. Tale opzione sembra frutto dell’opera di uno sguardo, sì, neo-crepuscolare, che punta e focalizza l’attenzione su elementi minuti e appartenenti a una quotidianità non sublimata, ma anche capace di cogliere, attraverso procedimenti analogici, le “trame leggere” che connettono i fattori del reale. Ne deriva un’atmosfera straniante, in cui dato oggettivo e trompe l’oeil s’innestano sino a sovrapporsi senza soluzione di continuità (si pensi ai chiodi ora reali ora dipinti, in un continuo ammiccare all’osservatore). Oggetti insignificanti quali barattoli o di quotidiano uso, come tazzine con graziosi decori, attraggono a sé lo sguardo. Non paiono posare su superfici; li diresti piuttosto fluttuare in un spazio astratto, in cui la cornice gioca un ruolo non secondario. Sono feticci del vivere; ne rivelano la bellezza, spesso celata in apparenze modeste, ma anche la fatica. Sì, perché abbandonati vessilli di dismissione, elementi che hanno abdicato alla loro usuale funzione, essi appartengono allo spazio dell’‘infinito silenzio’. Un silenzio di cose accomuna gli oggetti all’insetto, presenza cara, per esempio, all’arte olandese del Seicento. Non sfugga come esso fosse spesso connesso alla sfera della morte, con il suo corollario di corruzione e disfacimento della materia. A un sentore di caducità e al perenne metamorfismo del reale è riconducibile l’altro motivo pervasivo nelle opere di Cappelluti, la rosa. Anche nel suo nascere “nel vuoto creato da un chiodo, poggiando teneramente i petali su un coperchio”, essa sembra reclinarsi. Non appare appare quasi mai effigiata in contesti in cui possa sopravvivere. Posa su superfici o è sospesa, fa capolino da un barattolo (ma senza che si possa cogliere la presenza dell’acqua e mentre un insetto le si avvicina come in Bosschaert) per vivere piuttosto nelle parvenze delle trame di un tessuto. Lo spazio della tela circoscrive fenomeni che lo sguardo dell’artista accomuna, finendo col provocare nell’osservatore, paradossalmente, un senso di claustrofobica angustia e un generoso slancio verso l’infinito.

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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