La tempesta invisibile di Dino Claudio
In una delle sue più celebri poesie, Forse un mattino, andando in un’aria di vetro, Eugenio Montale, volgendosi, coglieva, alle proprie spalle, l’epifania del nulla, la rivelazione del vuoto e, dopo il riapparire degli strumenti dell’”inganno usato” (alberi, case e colli), tornava a camminare, silenzioso, tra “gli uomini che non si voltano”. Quello del porsi domande, del ricercare un varco, del “curarsi della propria ombra” era un tema caro al letterato ligure ed è uno dei temi nodali della letteratura del secolo scorso e di quello corrente. Il non sapersi adagiare tra gli uomini che non si arrovellano su interrogativi esistenziali, e finiscono, paradossalmente, per essere felici, è il peccato originale di Silvano Veneziani, protagonista del romanzo “La tempesta invisibile”, del molfettese Dino Claudio, edito, in un’elegante veste, per i tipi di Medusa nel 2014. La tempesta invisibile è la crisi che sconvolge l’esistenza del protagonista, come del suo eroinomane amico Rik; è il logorio del cuore operato da una ragione che insinua il dubbio e suscita crepe nell’acquiescenza nelle morbide volute della vita borghese. La metafora della navigazione allude anche alla possibilità, che ad un certo punto della narrazione s’intravede, d’un foscoliano porto di quiete, la morte o il villaggio di pescatori che, come le loro barche silenti, solcano le distese marine mai paghi d’azzurro. E non si pongono inutili, angoscianti interrogativi, abbandonandosi al flusso della Vita. In Ringkomposition, l’azione vera e propria si apre e chiude con due notturni: quello insonne, proiettato nel chiarore lunare di una Roma adamantina, in posizione incipitaria, e quello della pre-conclusione, che vede Silvano ricercare disperatamente il figlio Carmelo e abbandonarsi al frenetico, delirante incedere delle voci di dentro. Al momento iniziale seguono le scene da un interno familiare in disfacimento, quello dominato dal letto/catafalco in cui si spegne, in progressivo rigor mortis (proprio come la delicatissima figura di Marina), l’amore, ridotto a meramente bestiale richiamo carnale, tra Iris e il protagonista. Qui, Claudio pennella con maestria un odioso ritratto di donna cinica, vanesia, tutta compresa in quella che al protagonista appare una sorta di oscena erotomania. A complicare la già asfissiante “cronaca familiare” interviene l’incidente della diletta figlia Marina, che introduce il germe della malattia e della consunzione fisica nel torpore velenoso di quella casa e conduce la crisi alla Spannung, favorendo, tuttavia, anche l’introduzione del contraltare del Veneziani, il serafico Enzo. L’autore indugia sulla spirituale bellezza di quest’ultimo, sul suo ardore di carità, sull’amore che gli colora di smeraldo lo sguardo e suscita l’attrazione-repulsione del protagonista. Per la delineazione di questa “tempesta invisibile”, Claudio sceglie di adottare la prospettiva straniante di Silvano, optando per una focalizzazione interna che fa assumere al romanzo un andamento decisamente lontano dal lirismo delle “Stelle pazze”, dal fervore narrativo dell’”Alba dei vinti” e dall’aura mitica dell’”Isola di Cicno”. Il procedere, infatti, è raziocinante; quasi si respira l’asfissia spirituale del protagonista, costantemente alle prese con i suoi sofismi mentali, che non lo coadiuvano nell’incessante ricerca di senso all’esistenza. Talora emerge il sarcasmo, soprattutto nell’episodio della tresca tra Carla e Luca, fidanzato di Marina, orchestrata dall’infida Iris, o nel momento del tradimento di quest’ultima. Delle volte, però, il rovello filosofico si placa e lo sguardo si apre al lirismo, come nel già citato notturno romano incipitario o nella descrizione dell’attività dei pescatori nel borgo natio, o ancora nelle pennellate (vagamente ravvicinabili all’andamento estenuato del “Poema paradisiaco” dannunziano) che coloriscono il delicato rapporto con la madre. Non manca persino l’incubo di marca surreale, nel malessere di Veneziani in ufficio, con i volti degli astanti che, allo sguardo allucinato dell’io narrante, divengono ghignanti “casse mortuarie”; venature espressioniste assume la follia dell’amico Rik, con le fantasie antropofaghe rivolte all’indirizzo dell’amatissima, e ormai irraggiungibile, Deborah. Nel finale, la tempesta invisibile si placa, nelle pagine, colme di speranza e di limpido amore per il creato, dell’epistola di Padre Pietro, che si colora di un lirismo edificante e conclude, nel profumo della presenza di Dio, la dolorosa narrazione. Il romanzo si segnala per lo stile alto e tragico e per la nobiltà della tematica affrontata, l’angoscia che coglie chi s’inerpica in questo impervio “cammino con gli sguardi al cielo e i passi al precipizio”.
Autore: Gianni Antonio Palumbo