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La Puglia terra di internamento ed accoglienza
15 febbraio 2022

1 - I CAMPI DI INTERNAMENTO Terra di frontiera, passerella nel Mediterraneo, la Puglia del XX secolo si è offerta a profughi e perseguitati come luogo di sosta o ponte di passaggio verso lidi più sicuri. Forse poco conosciute sono le vicende degli ebrei perseguitati, dapprima dal regime nazista e poi anche da quello fascista, nella nostra regione. Già nel 1999, nel capitolo “Provvedimenti razziali e propaganda antisemita”, pubblicato in “Fascismo e leggi razziali in Puglia”, edito da Progedit, la dott.ssa Mariolina Pansini metteva in luce la presenza di ebrei stranieri in Puglia, in particolare di “sudditi germanici”, sin dal 1933: a seguito dell’avvento al potere del partito hitleriano e del dichiarato atteggiamento antisemita delle autorità tedesche, entro dicembre di quell’anno 37.000 ebrei avevano richiesto accoglienza in altre nazioni e quindi anche in Italia, ben due anni prima delle tristemente note Leggi di Norimberga. Non essendo ancora iniziata in Italia alcuna campagna antisemita, il regime fascista non mostrò alcuna contrarietà ad accogliere i fuggiaschi, purché non fossero dichiaratamente antifascisti. Intanto, a Brindisi, il 23 giugno del ’33 il Prefetto scriveva al capo della Polizia: … “dallo scorso mese di marzo affluiscono comitive di apolidi germanici…”, ma non tutti riescono ad imbarcarsi per la Terra Promessa il giorno stesso del loro arrivo. Infatti, come afferma il dott F. Terzulli nel capitolo “I luoghi della memoria: emigrazione e presenza ebraica, vita nei campi” nel citato testo “Fascismo e leggi razziali in Puglia”, le autorità palestinesi consentivano lo sbarco solo di dieci o dodici profughi per volta, gli altri venivano respinti. Questo significava che alla fine di giugno risiedevano a Brindisi 50 profughi, alloggiati a loro spese in diversi alberghi di secondo ordine. Già nel ’36, in seguito ad accordi con Berlino, l’attività di controllo della Polizia italiana si faceva più stringente: il 6 maggio, il capo della Polizia richiedeva precisamente “i nominativi dei predetti profughi, nonché quello di stranieri di altre nazionalità che risultassero profess[are] religione ebraica”. Che fosse cambiato l’atteggiamento delle autorità italiane è dimostrato da un documento datato 5/11/1937 avente come oggetto “Misure di vigilanza contro attività sovversiva”, in cui gli ebrei vengono definiti “setta perniciosa, disseminata in tutto il mondo, mossa da interessi economici, che conduce…una lotta accanita, aperta contro il Nazismo tedesco e subdola contro il Fascismo…”. L’accurata vigilanza nei confronti degli ebrei era giustificata inoltre “dalle basi stesse delle loro dottrine” ispirate a principi internazionalisti e antipatriottici. Come tutti sanno, nell’anno successivo si scatenò una campagna di stampa che culminò nell’agosto con il Manifesto della Razza e con la “rilevazione degli ebrei residenti nelle province del Regno”. In una lettera riservatissima del Prefetto di Bari al Ministro degli interni, Direzione Demografia e Razza, si dichiaravano censiti in Provincia, alla mezzanotte del 22 agosto ‘38, 95 ebrei, di cui 64 italiani e 31 di nazionalità estera. Le famiglie erano così suddivise: una ad Andria, una a Gioia del Colle, una a Molfetta, tre a Trani, una a Valenzano, 29 a Bari (in totale 77, di cui 47 italiani e 30 di nazionalità estera). Mentre si susseguivano i provvedimenti per l’esclusione delle persone di razza ebraica dall’insegnamento e dei fanciulli dalla frequenza scolastica, il 7 settembre del ‘38 veniva liquidato il problema degli ebrei stranieri attraverso il decreto di espulsione e di divieto di residenza nel Regno, in Libia e nell’Egeo. Al momento dell’ingresso in guerra dell’Italia, la misura dell’internamento in campi di concentramento, ordinariamente prevista negli stati tra le forme di “mobilitazione civile”, viene utilizzata dal Fascismo in forma chiaramente persecutoria nei confronti degli ebrei italiani e stranieri. Nel giugno del ’40 si procedeva quindi al rastrellamento di ebrei stranieri, mentre gli ebrei italiani venivano di fatto assimilati agli internati per motivi di polizia, in quanto “pericolosi”. Spiace sottolineare che nel territorio pugliese la misura dell’internamento civile sia stata il provvedimento persecutorio antiebraico attuato per il periodo più lungo e a danno del più alto numero di vittime, in termini relativi. A questo scopo si rese necessario individuare edifici idonei al concentramento: l’Ispettore generale di Polizia Lo Spinoso, inviato appositamente dal capo della Polizia, ne identificò diversi nelle province pugliesi di Bari e Foggia: tutti in località interne, distanti dai centri abitati, facilmente vigilabili per la presenza di stazioni dei Carabinieri, collegati da regolari servizi ferroviari e stradali ai capoluoghi. Si trattava di strutture in muratura, spesso già molto vecchie, prive di corrente elettrica e di riscaldamento, di servizi igienici adeguati ed efficienti, quindi non adatte al soggiorno prolungato di persone. Fra quelli segnalati, il capo della Polizia scelse il nuovo Macello comunale di Manfredonia, l’ex scuola tecnico-agraria “Francesco Gigante” di Alberobello, l’ex mulino-pastificio “Pagano” di Gioia del Colle, le casette coloniche ed i capannoni dell’Isola di San Domino nelle Tremiti. Questi ultimi erano già stati utilizzati dalla Colonia di confino per alloggiarvi confinati politici e centotredici omosessuali. Complessivamente, nel campo di Gioia del Colle verranno internati 58 ebrei italiani. Nella “Casa rossa” di Alberobello saranno ristretti circa sessanta ebrei dell’Europa centro-orientale, nel ’42 verranno internati ebrei italiani ribellatisi alle norme sulla precettazione civile a scopo di lavoro ed ebrei croati sfuggiti agli ùstascia. A Manfredonia saranno internati 31 ebrei tedeschi; alle Tremiti, cinque ebrei stranieri ed alcuni italiani. Le fonti documentarie che riportano le condizioni di vita nei campi sono le relazioni ispettive periodiche, di solito positive, e le numerose petizioni degli internati che lamentano l’umidità, la mancanza di riscaldamento, l’accentuarsi dei reumatismi, la carenza di vestiario, di calzature e di biancheria, la mancanza di docce, l’impossibilità di ricevere congiunti, di ingresso di un rabbino o di libri religiosi ebraici, i controlli rigorosi delle somme di denaro eventualmente ricevute in aiuto dalle Comunità. Le prescrizioni cui gli internati dovevano attenersi erano molto numerose e piuttosto severe, tuttavia, ad onor del vero, non si registrarono violenze o torture paragonabili a quelle perpetrate nei lager nazisti. Questa considerazione non ci esenta dal giudizio complessivamente negativo sulla solerzia con cui le autorità locali misero in atto le prescrizioni razziali e sulla sostanziale indifferenza della popolazione pugliese di fronte alla presenza sul proprio territorio di perseguitati e discriminati. Maddalena de Fazio

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