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La mia Palestina Vi racconto il mio viaggio pacifista
15 settembre 2011

Si inerpica per le colline. Salta staccionate con nonchalance. Evita lacrimogeni. Zittisce soldati israeliani ai check point, senza neppure farci controllare i documenti. E’ Luisa Morgantini, settant’anni, già vice- presidente del Parlamento Europeo, forse la maggiore esperta di Palestina e Medio Oriente che abbiamo in Italia: chi non la conosce non è stato nel nostro Paese perlomeno negli ultimi vent’anni, o, se c’era, dormiva. Con lei otto giorni di viaggio intenso, in una delegazione di quarantacinque pacifisti/e provenienti da tutta Italia. In giro per tutta la Palestina e anche in Israele, per portare solidarietà ad un popolo palestinese sfiancato da lustri e lustri di guerra, per incontrare chi in Israele si impegna tutti i giorni per una pace giusta. Otto giorni di incontri con rappresentanti istituzionali dell’Autorità Palestinese, un’esponente dell’Onu, il leader palestinese Mostafà Barghouti, esponenti dell’associazionismo e della società civile, Centri Donna, per tessere relazioni, per conoscere, per fare controinformazione in Italia, per avviare progetti di cooperazione decentrata. Gerusalemme, Nablus, Ramallah, Betlemme, Jenin, Hebron, Gerico, Bil’in, At Tuwani, Haifa. Con un unico cruccio: non essere potuti/e entrare a Gaza, teatro, mentre vi scriviamo, di una feroce rappresaglia israeliana con bombardamenti aerei e già stretta nella morsa di un pesante embargo. Arduo raccontare un viaggio così denso di senso in seimila battute. Ve ne raccontiamo pertanto alcuni passaggi significativi. C’è una cosa che è un vero e proprio pugno nello stomaco appena appare agli occhi: il Muro. Averlo studiato, aver raccontato i suoi fini reali, aver parlato della sua illegalità, è ben altra cosa che vederlo. Ha molti nomi, il Muro: barriera di separazione, barriera di sicurezza, muro della vergogna, muro dell’annessione, muro dell’Apartheid. 725 km di cemento, torrette e porte elettroniche, che ufficialmente Israele ha deciso di costruire per “impedire attacchi terroristici”, ma che in verità sta usando come mezzo per inglobare porzioni sempre più consistenti di territorio, in associazione con le politiche che portano a nuovi insediamenti di coloni in tutta la Cisgiordania. Questo reca tutta una serie di disagi alla libertà di movimento della gente palestinese: spesso, ad esempio, le abitazioni dei/delle palestinesi e i loro campi sono separati dal Muro, con la conseguenza che spesso le coltivazioni dei campi vanno a farsi benedire. Eppure l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto il muro come illegale sin dall’ottobre 2003, ma purtroppo le risoluzioni dell’Onu non sono vincolanti e Israele ha potuto fare il bello e il cattivo tempo sulla vicenda. L’anno successivo la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha emesso parere consultivo sulla vicenda, definendo la costruzione “contraria al diritto internazionale”. Fra centri storici disseminati di foto di ragazzi morti, spesso bambini, siamo approdati/e a Jenin. Situata nella zona “A”, quella che dopo gli accordi di Oslo è passata sotto il diretto controllo dell’Autorità Palestinese, è sede, oltre che di uno dei più importanti campi profughi, di un importante teatro, il Freedom Theatre (teatro della libertà). Animato per molti anni da Juliano Mer-Khamis, fino alla sua tragica uccisione davanti al teatro, fondato da sua madre Arna, privilegia corsi teatrali, di tre classi, coinvolgendo soprattutto bambini/e e ragazzi/e. Zacharia, l’attuale responsabile del teatro, e tutta la compagnia teatrale, privilegiano l’arte come percorso di liberazione e questo ne fa un’esperienza quasi unica in Palestina. Mantenere tutta la struttura del Freedom Theatre non costa molto, appena 8.000 euro all’anno, è partito un appello nazionale di raccolta fondi per aiutare questa struttura a continuare a vivere. Siamo certi/e che anche dalle nostre parti non resterà inascoltato. Una importante sacca di resistenza palestinese è nella Valle del Giordano, in area C, cioè sotto controllo sia amministrativo che militare di Israele; a dire il vero era previsto che detto controllo dovesse cessare nel 1999, ma l’accordo di Oslo non è stato rispettato. Sotto occupazione israeliana dal 1967, gli abitanti subiscono una continua deprivazione di acqua e luce elettrica, di sottrazione continua di terra per la costruzione di nuove colonie israeliane, “legali” secondo l’ordinamento israeliano (non lo sono mai per la comunità internazionale) e non; abbiamo visitato un villaggio di beduini. Una situazione di estrema povertà, dove però la popolazione locale non ha rinunciato a costruire una scuola, disobbedendo si divieti israeliani: circa tre metri per quattro, mattoni di fango, senza sedie, con quattro insegnanti non pagati. Anche in questo caso è partita una gara di solidarietà, anche in questo caso siamo certi/e che l’appello non resterà inascoltato. Spazio ora al racconto, anche in iniziative pubbliche, spazio alla costruzione di relazioni, con la bussola che ci ha detto il Governatore di Gerico, che abbiamo un mondo solo, che siamo tutti/e esseri umani. Spazio alla cooperazione e alla diplomazia decentrata. Ci aspetta un settembre di fuoco: l’Onu ha in calendario il riconoscimento dello Stato di Palestina, cosa invero difficile, come diceva l’esponente dell’Ocha con cui abbiamo conferito a Gerusalemme: gli Stati Uniti porranno sicuramente il veto, incerto è il ruolo dell’Europa. Continuano i raid aerei su Gaza. Noi abbiamo un solo cruccio, quello di non essere potuti/e entrare a Gaza, stremata da un duro embargo che neanche la Freedom Flotilla è riuscita a violare. Per anni il pacifista Vittorio Arrigoni, ucciso nello scorso aprile, è stato impegnato in progetti su Gaza. In Palestina vi sono sue foto e striscioni dappertutto, da muri di abitazioni a macchinette nei bar per fare un buon espresso italiano. Non sappiamo cosa succederà in questo settembre; in ogni caso, come diceva Vittorio, che ho avuto la fortuna di incontrare, resteremo umani.

Autore: Francesca la Forgia
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