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La fine del 2012, la sfida per una Molfetta migliore
31 dicembre 2012

MOLFETTA - Il 2012 è stato per Molfetta un anno cruciale. La fine di Azzollini, che il 2012 ha segnato impietosamente, rappresenta uno spartiacque importante e lancia una sfida, che la città è chiamata ad accogliere.
Perché la dimensione azzolliniana non si è affatto sgretolata, resta una città in cui le istanze evaporano, prive del momento in cui la politica le assume e ne fa la sostanza del confronto e dell’elaborazione. Quelle stesse istanze espresse dalla città divengono così un grido disperato, che si perde nel vuoto, nell’impossibilità di crescere, di respirare, di divenire voce della comunità.
Il 2012 ci ha posti di fronte all’eccedenza della voce dei cittadini rispetto alla modalità di amministrazione politica di matrice azzolliniana. E’ la stessa voce che, in tutta Europa, soprattutto verso la fine del 2012, ha rivendicato i diritti al lavoro, alla cittadinanza, ad esistere a pieno titolo, in un sistema che vuole alimentarsi dell’uomo per sopravvivere alla propria insufficienza.
Il tempo di Azzollini, della spartizione indebita del territorio, dell’estetizzazione culturale diffusa, dell’abusivismo e delle grandi opere e di eventi isolati e sganciati da un orizzonte di crescita comunitaria, a Molfetta è finito. Ma l’altra parte della città ha risposto alimentando a dismisura il proprio ego, e risolvendosi nella conferma delle proprie identità individuali, al di fuori di qualsiasi processo di confronto e di elaborazione politica.
La politica si è chiusa nuovamente nel proprio isolamento, perdendo l’opportunità di cogliere la sfida, e concedendosi nuovamente in pasto al centro-destra, scendendo sul suo stesso piano di isolamento, di astrazione. Con una differenza: quest’ultimo è nuovamente unito.
La fine di un anno, prima che un elemento di ordine strettamente temporale, si connota di un carattere simbolico, rilanciando la sfida col reale, concedendoci un nuovo inizio, ridandoci la carica. Il 2013 rimette la città alla nostra capacità di sfuggire all’appiattimento della vita e delle relazioni comunitarie, per fare della politica il luogo del confronto e della progettazione delle condizioni di crescita di quelle possibilità.
E’ necessario ripartire dalla comunità, perché la politica possa costruire il terreno in cui questa possa crescere, permettendo a ciascuno di realizzarsi. Questa è la sfida di una città che attende un nuovo anno, che merita un nuovo inizio. E’ questo il proposito essenziale per il 2013.
Auguri Molfetta!
 
© Riproduzione riservata
Autore: Giacomo Pisani
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Un nuovo tenore di vita, adattato alla pacificazione dell'esistenza, presuppone inoltre per il futuro una riduzione della popolazione. E' comprensibile, persino ragionevole, che la civiltà industriale consideri legittima la strage di milioni di persone in guerra, ed i sacrifici quotidiani di tutti coloro che non hanno cure e protezioni sufficienti, ma scopra i propri scrupoli morali e religiosi se si tratta di evitare la produzione eccessiva della vita in una società che è ancora rivolta alla annichilazione pianificata della vita nell'Interesse Nazionale, e alla mortificazione non pianificata della vita da parte degli interessi privati. Questi scrupoli morali sono comprensibili e ragionevoli perché una società simile ha bisogno di un numero sempre crescente di clienti e sostenitori; l'eccesso di capacità produttiva che costantemente si rinnova deve pur essere collocato in qualche modo. Ma le esigenze della produzione di massa, con i profitti che reca, non sono necessariamente identiche a quelle dell'umanità. Il problema è non solo (e forse neppure principalmente) quello di sfamare e assistere adeguatamente una popolazione crescente – e in primo luogo un problema di numero, di pura quantità. Il crimine è quello di una società in cui la popolazione che cresce peggiora la lotta per l'esistenza dinanzi alla possibilità di alleviarla. La brama di un maggiore “spazio vitale” non si manifesta soltanto nell'aggressività internazionale ma anche entro la nazione. Qui l'espansione ha invaso, nelle innumeri forme di lavoro di squadra, della vita di comunità, e del divertimento, lo spazio interiore della sfera privata ed ha praticamente eliminato la possibilità di quell'isolamento in cui l'individuo, lasciato solo a se stesso, può pensare e domandare e trovare. Questo aspetto della vita privata – la sola condizione che, quando i bisogni vitali siano stati soddisfatti, può dare significato alla libertà e all'indipendenza di pensiero – è diventata da lungo tempo la più dispendiosa delle merci, che può permettersi solo l'individuo ricchissimo (il quale non l'usa). Per questo riguardo, del resto, la “cultura” rivela le sue origini e limitazioni feudali. Essa può diventare democratica solo a mezzo dell'abolizione della democrazia di massa, ovvero solo se la società sarà riuscita a ristabilire le prerogative della sfera privata consentendole a tutti e proteggendole per tutti. Alla negazione della libertà, e perfino della possibilità della libertà, corrisponde la concessione di libertà atte a rafforzare le repressione. E' spaventoso il modo in cui si permette alla popolazione di distruggere la pace ovunque vi sia ancora pace e silenzio, di essere laidi e rendere laide le cose, di lordare l'intimità, di offendere la buona creanza………………………………Come può una società ch'è incapace di proteggere la sfera privata dell'individuo persino tra i quattro muri di casa sua asserire legittimamente di rispettare l'individuo e di essere una società libera?

...........e tuttavia questa società è, nell'insieme, irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e bisogni umani, la sua pace è mantenuta da una costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per l'esistenza – individuale, nazionale e internazionale. Questa repressione, così differente da quella che caratterizzava gli stadi precedenti, meno sviluppati, della nostra società, opera oggi non da posizione di immaturità naturale e tecnica, ma piuttosto da una posizione di forza. Le capacità (intellettuali e materiali) della società contemporanea sono smisuratamente più grandi di quanto siano mai state, e ciò significa che la portata del dominio della società sull'individuo è smisuratamente più grande di quanto sia mai stata. La nostra società si distingue in quanto sa domare le forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla duplice base una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita. Indagare quali sono le radici di questo sviluppo ed esaminare le loro alternative storiche rientra negli scopi di una teoria critica della società contemporanea, teoria che analizza la società alla luce delle capacità che essa usa o non usa, o di cui abusa, per migliorare le condizioni umane. Sin dall'inizio ogni teoria critica della società si trova dinanzi al problema dell'obiettività storica, problema che sorge nei due punti in cui l'analisi implica giudizi di valore: 1) Il giudizio che la vita umana è degna di essere vissuta, o meglio che può e dovrebbe essere degna di essere vissuta. Questo giudizio è sotteso ad ogni sforzo, ad ogni impresa intellettuale; esso è un a priori della teoria sociale, e quando lo si rigetti (ciò che è perfettamente logico) si rigetta pure la teoria. 2) Il giudizio che in una data società esistono possibilità specifiche per migliorare la vita umana e modi e mezzi specifici per realizzare codeste possibilità. La società costituita dispone di risorse intellettuali e materiali in quantità e qualità misurabili. In che modo queste risorse possono venire usate per lo sviluppo e soddisfazioni ottimali di bisogni e facoltà individuali, con il minimo di fatica e di pena? Di conseguenza dobbiamo chiederci quali sono, tra i vari modi potenziali e reali di organizzare ed utilizzare le risorse disponibili, quelli che offrono le maggiori possibilità per uno sviluppo ottimale. - La società contemporanea sembra capace di contenere il mutamento sociale, inteso come mutamento qualitativo che porterebbe a stabilire istituzioni essenzialmente diverse, imprimerebbe una nuova direzione al processo produttivo e introdurrebbe nuovi modi di esistenza per l'uomo. Questa capacità di contenere il mutamento sociale è forse il successo più caratteristico della società industrialmente avanzata; l'accettazione generale dello scopo nazionale, le misure politiche avallate da tutti i partiti, il declino del pluralismo, la connivenza del mondo degli affari e dei sindacati entro lo stato forte, sono altrettante testimonianze di quell'integrazione degli opposti che è al tempo stesso il risultato, non meno che il requisito, di tale successo.
Il bisogno di un mutamento qualitativo non è mai stato così urgente. Ma chi ne ha bisogno? La risposta è pur sempre la stessa: è la società come un tutto ad averne bisogno, per ciascuno dei suoi membri. L'unione di una produttività crescente e di una crescente capacità di distruzione; la politica condotta sull'orlo dell'annientamento; la resa del pensiero, della speranza, della paura alle decisioni delle potenze in atto; il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza senza precedenti costituiscono la più imparziale delle accuse, anche se non sono la raison d'ètre di questa società ma solamente il suo sottoprodotto: la sua razionalità travolgente, motore di efficienza e di sviluppo, è essa stessa irrazionale. Il fatto che la grande maggioranza della popolazione accetta ed è spinta ad accettare la società presente non rende questa meno irrazionale e meno riprovevole. La distinzione tra coscienza autentica e falsa coscienza, tra interesse reale e interesse immediato, conserva ancora un significato. La distinzione deve tuttavia essere verificata. Gli uomini debbono rendersene conto e trovare la via che porta dalla falsa coscienza alla coscienza autentica, dall'interesse immediato al loro interesse reale. Essi possono far questo solamente se avvertono il bisogno di mutare il loro modo di vita, di negare il positivo, di rifiutarlo. E precisamente questo bisogno che la società costituita si adopera a reprimere, nella misura in cui essa è capace di “distribuire i beni” su scala sempre più ampia e di usare la conquista scientifica dell'uomo. In questa società l'apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. In tal modo esso dissolve l'opposizione tra esistenza privata ed esistenza pubblica, tra i bisogni individuali e quelli sociali. Noi viviamo e moriamo in modo razionale e produttivo. Noi sappiamo che la distruzione è il prezzo del progresso, così come la morte è il prezzo della vita; che rinuncia e fatica sono condizioni necessarie del piacere e della gioia; che l'attività economica deve proseguire, e che le alternative sono utopiche. Questa ideologia appartiene all'apparato stabilito dalla società; è un requisito del suo regolare funzionamento, fa parte della sua razionalità.



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