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L'affondamento della “Brin” fra tradimento e sabotaggio
15 settembre 2015

Brindisi, lunedì 27 settembre 1915, ore 8. Nel quadrato di poppa della nave da battaglia Benedetto Brin, ammiraglia da 15 mila tonnellate della 1a divisione della 2a squadra navale, ancorata nel porto medio, il contrammiraglio Ernesto Rubin de Cervin, comandante della 3ª divisione della 2ª squadra, da poco salito a bordo, tiene il rapporto degli ufficiali. Intanto i marinai di servizio ripuliscono con vigore la corazzata. Improvvisamente un tremendo boato squarcia il cielo, scuotendo il porto e la città. Le navi ormeggiate sussultano, le case di Brindisi tremano. Una colonna grigio-giallo-rossastra, densa e acre, alta un centinaio di metri, copre e sovrasta la corazzata. Nel fumo si discerne per un attimo la massa d’acciaio dei cannoni da 305 millimetri della torre poppiera, che, scagliata in aria dall’esplosione, ripiomba poi pesantemente in mare sulla sinistra della nave, mentre il fumaiolo centrale e l’albero di poppa ricadono disintegrati nell’acqua. Per alcuni minuti solo le vampe di un furioso incendio e le urla di dolore e raccapriccio provenienti da poppa lasciano intuire l’immane sciagura. È esplosa la santabarbara. È distrutta la parte poppiera. In breve tempo la bella nave affonda, poggiando sul fondo. Sono le 8:10. In mezzo ai cadaveri e ai rottami galleggianti, affiorano le torri squarciate e la prua arde. Accorrono subito il vice-ammiraglio Ernesto Presbitero, comandante della 2ª squadra a Brindisi, e le altre autorità navali, cercando di aiutare i superstiti. L’opera di soccorso è sollecita. Tra i primissimi a prestare aiuto, vi sono il tenente di vascello Paolo Resasco, comandante della torpediniera d’alto mare Centauro, e due marinai della torpediniera francese 369, Louis Roussel e Jean Iual, che cominciano a rimuovere il materiale infiammabile a rischio della propria vita. L’incendio viene presto domato, grazie anche al progressivo affondamento della corazzata straziata. Le scialuppe delle navi italiane e francesi presenti nel porto raccolgono feriti e morti. Una gran folla, inizialmente radunata sulle banchine per assistere all’alzabandiera, osserva angosciata e muta lo spettacolo crudele. Il bilancio della catastrofe è gravissimo. Dei 943 uomini presenti sulla Brin si contano nel tempo 456 vittime dilaniate, schiacciate o carbonizzate fra gli ammassi informi dei rottami sconnessi o bruciati, in gran parte irriconoscibili o disperse. Del barone torinese Ernesto Rubin non si trova nemmeno il cadavere. Con lui è morto pure il comandante della nave, il capitano di vascello Gino Fara Forni di Pettenasco nel Novarese. Sono periti anche il capitano del genio navale ing. Francesco Pegazzano di La Spezia e altri venti ufficiali. Tra i morti vi sono anche marinai di Molfetta, registrati nell’Albo d’oro dei militari del C.R.E.M. (Corpo Reali Equipaggi di Marina): il marò ventitreenne Ilarione Amato di Pasquale e Angela Adesso; il fuochista diciannovenne Francesco Bellifemine di Corrado e Anna Rita Salvemini; il fuochista ventunenne Domenico Binetti di Liborio e Lucia Del Rosso, e il marò ventiduenne Ignazio Mezzina di Pietro e Angela Maria De Bari. La Regia Marina emana un comunicato in cui si dice che la corazzata Benedetto Brin è affondata per lo scoppio del deposito munizioni. Il vice-ammiraglio Presbitero invia con urgenza un rapporto ad Antonio Salandra, presidente del Consiglio e momentaneamente ministro della Marina ad interim. Salandra a sua volta, nello stesso 27 settembre, invia al Duca degli Abruzzi Luigi Amedeo di Savoia, comandante in capo dell’Armata navale, questo dispaccio: «Ho letto il rapporto dell’ammiraglio Presbitero relativo all’esplosione della regia nave Benedetto Brin. Vi si afferma cheuna commissione è stata nominata per procedere ad una immediata inchiesta intesa ad accertare le cause dell’esplosione. La commissione proceda pure alle sue constatazioni con l’aiuto dei tecnici che sono stati richiesti. Ma io, interprete e partecipe della grave impressione che la notizia della perdita della poderosa nave e di tante vite di valorosi ufficiali e marinai produrrà nel Paese, prego Vostra Altezza Reale di assumersi direttamente il compito di accertare le cause del doloroso fatto, ricercando, senza riguardo a persona, le eventuali responsabilità e rassicurando il Paese e la Marina, che deve e vuole essere esposta ai colpi del nemico, ma non a rischi immani derivanti forse da negligenze o acquiescenze, le quali, se vi sono state, debbono rigorosamente accertarsi, dichiararsi e punirsi». Il 30 settembre successivo il vice-ammiraglio Paolo Emilio Thaon di Revel, capo di stato maggiore della Marina, rassegna le dimissioni, anche per disaccordi col Duca degli Abruzzi. Lo sostituisce il vice-ammiraglio Camillo Corsi, contemporaneamente ministro della Marina. Luigi Amedeo di Savoia, assunta la presidenza della commissione, apre l’inchiesta e forma tre sottocommissioni. Quella tecnica è diretta dal contrammiraglio Giovanni Patris. Si procede all’interrogatorio dei superstiti e dei testimoni, alla ricognizione dei resti della corazzata e all’indagine sugli esplosivi. Dopo un lungo dibattito, si giunge alla conclusione che, escludendo il dolo, la causa del disastro possa attribuirsi a un incidente fortuito o all’autocombustione della balistite «favorita dalle poco soddisfacenti condizioni termiche del deposito munizioni». L’affondamento della Benedetto Brin è avvenuto dopo appena quattro mesi dall’uscita dalla neutralità da parte dell’Italia. I tedeschi che hanno brigato di più per far rimanere neutrale l’Italia sin dal 1914 sono stati il deputato e diplomatico Matthias Erzberger, capo del partito cattolico germanico, e il barone Franz von Stockhammern, segretario per gli affari con la Nunziatura apostolica, che ora, come alto funzionario presso l’ambasciata tedesca a Roma sotto Bernhard von Bülow e presso la missione diplomatica in Svizzera, regge le fila dello spionaggio austro-germanico dalla neutrale Confederazione elvetica. Il suo “corvo” in Vaticano è un monsignore bavarese di trent’anni, Rudolph Gerlach, ex ufficiale tedesco legatissimo alla ex regina Maria Sofia di Baviera, vedova di Francesco II delle Due Sicilie. Mons. Gerlach, nominato cameriere segreto partecipante del papa verso la fine del 1915, finanzia giornali clericali e “disfattisti”, raccoglie informazioni militari strategiche per gli Imperi Centrali e si avvale del comm. Giuseppe Ambrogetti, segretario particolare e tesoriere di Benedetto XV, per gli ingenti trasferimenti di denaro dall’estero e gli assegni transitanti dalla Svizzera da girargli per la riscossione. A Roma, in contatto da una parte con mons. Gerlach e il comm. Ambrogetti e dall’altra col comm. Giacomo Vigliani, direttore della pubblica sicurezza, si muove l’avvocato Archita Valente, un mediocre drammaturgo originario di Taranto. Valente a un certo punto è preso al servizio del barone Stockhammern, che, oltre alle spese, ogni mese gli fa avere 1.500 lire (circa 30 mila euro) per notizie militari utili, come i preavvisi sulle avanzate delle truppe italiane sull’Isonzo, tempestivamente inviati in codice alla centrale di spionaggio di Lucerna. I risultati dell’inchiesta sulla catastrofe della Benedetto Brin sono resi pubblici in Parlamento solo il 6 marzo 1916, quando l’on. Giuseppe Astengo di Savona chiede di conoscerli, «anche in ordine alle eventuali responsabilità », al presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Salandra, e al ministro della Marina Corsi. La risposta è data dal sottosegretario di Stato Augusto Battaglieri in questi termini: «Quando, il 27 settembre ultimo scorso occorse il disgraziato accidente sulla Regia nave Benedetto Brin, si affidò incarico al comandante in capo dell’Armata [navale] di compiere una severa inchiesta per accertare le cause del disastro e stabilire le eventuali responsabilità. L’inchiesta accurata è stata ora condotta a termine ed i risultati escludono il dolo, le acquiescenze, le avarie occasionali. Si affacciano quindi due ipotesi: che lo scoppio sia avvenuto in seguito a qualche imprudenza di coloro che per ragioni di servizio dovevano in quell’ora trovarsi in Santa Barbara; o per combustione spontanea degli esplosivi. Entrambe le ipotesi non possono però essere vagliate con sicuri elementi di giudizio, poiché tutti coloro che erano nel deposito delle munizioni, e quindi i soli in grado di fornire chiarimenti, sono sventuratamente scomparsi; e gli esplosivi sono in gran parte distrutti. Le cause precise della esplosione non poterono essere determinate, così come risultarono non determinabili nella più gran parte delle disgrazie consimili avvenute presso le altre Marine; recentissimi esempi quelli della corazzata britannica Bulwark, completamente distrutta con tutto il suo equipaggio nel porto di Sheerness il 26 novembre 1914, e dell’incrociatore britannico Natal avvenuta il 30 dicembre scorso. Nessuna responsabilità è quindi emersa a carico del personale della Regia Marina». Proprio due inquietanti cause escluse dall’inchiesta, cioè «il dolo» e «le acquiescenze», cominciano a salire in cima alle ipotesi più probabili quando, il 2 agosto 1916, nel Mar Piccolo di Taranto affonda in seguito a una esplosione la nuova corazzata da 25 mila tonnellate Leonardo da Vinci, provocando la morte di altri 248 marinai. La nuova commissione d’inchiesta si occuperà in parallelo anche della perdita della Brin, arrivando a queste conclusioni: «La Commissione, allo stato degli atti, ha ritenuto che la causa dell’incendio della Leonardo da Vinci sia stata un’azione delittuo-sa; e che vi siano gravi ragioni per ammettere il dolo anche nel caso della Benedetto Brin». Intanto la IV Sezione della Regia Marina, cioè il suo servizio di controspionaggio diretto a Roma con scarsi mezzi dal capitano di vascello Marino Laureati, pianifica la neutralizzazione dell’Evidenzbureau Marine, ossia il servizio segreto della Marina austro-ungarica, capeggiato dal capitano di vascello Fritz Rudolf Mayer, che ha cambiato il nome all’Ufficio di Descrizione Costiera, come si chiamava a Trieste, in quello più inquietante di Sezione Sabotaggio, a Zurigo. L’Evidenzbureau mette a disposizione somme ingenti, purché l’organizzazione sabotatrice raggiunga gli scopi sperati. Il tariffario è ghiotto: 300 mila lire (circa un milione e 600 mila euro) per un sommergibile o un cacciatorpediniere, 500 mila lire (più di 2 milioni e 700 mila euro) per un incrociatore, un milione di lire (oltre 5 milioni e mezzo di euro) per una corazzata. Il compenso viene accreditato ai traditori di primo livello in franchi svizzeri su conti segreti presso una banca di Lugano. Tutto e tutti hanno un prezzo. Anche con ciò si ha la riconferma che il primo conflitto mondiale è una sporca guerra. Come infiltrato a Zurigo viene scelto l’ex avvocato bancarottiere fiorentino Livio Bini, che nel settembre del 1916 è incaricato dal tenente di vascello Pompeo Aloisi, attaché militare alla legazione italiana a Berna, di individuare e sorvegliare l’ufficio di spionaggio zurighese. Bini individua la sede dell’intelligence nemica nel centro di Zurigo presso il Consolato generale austro-ungarico. Proponendosi come informatore al falso console Mayer, cui non sfugge il doppio gioco dell’italiano, Bini scopre che in una solidissima cassaforte sono custodite le carte più importanti, tra cui dovrebbero trovarsi anche gli elenchi dei traditori italiani e la documentazione sui sabotaggi della Brin e della Leonardo da Vinci. Nasce così l’idea del rocambolesco «Colpo di Zurigo», che sarà brillantemente messo in atto nel carnevale del 1917. Bini conosce i turni degli impiegati e il numero delle porte da aprire per raggiungere la cassaforte: sedici, che poi diventeranno diciassette. In appoggio al gruppo impegnato in Svizzera al comando di Aloisi vengono inviati alla legazione italiana di Berna due irredenti triestini, il falso vice-console Ugo Cappelletti, tenente di artiglieria, e lo pseudo addetto commerciale Salvatore Bonnes, tenente del Genio navale, che conosce il tedesco. Gli altri uomini sono il sottocapo della Marina Stenos Tanzini di Lodi, il meccanico triestino Remigio Bronzin, che riproduce le chiavi dopo aver avuto i calchi, e lo scassinatore livornese Natale Papini, fatto uscire apposta dal carcere. Cappelletti e Bonnes fanno da pali per strada e con un telefono della Posta centrale si mantengono in contatto con Aloisi in trepida attesa a Berna. Gli altri aiutano Papini nello scasso della cassaforte e ne trafugano il contenuto. Tra i documenti vi sono cifrari, piante dei porti italiani, progetti di sabotaggio, le relazioni sull’affondamento delle corazzate e l’elenco delle spie e degli agenti segreti sguinzagliati in Italia e in Svizzera. Si appura che si stava brigando per far saltare in aria altre navi italiane. I documenti vengono suddivisi in 14 grossi pacchi e muniti del sigillo della legazione di Berna. Il comandante Aloisi in seguito li affida alla cassaforte del capo della squadra mobile di Milano. L’agenzia spionistica del cap. Mayer è stata così sgominata e gl’impiegati costretti a ritornare in Austria. La sera del 5 marzo 1917 inopinatamente Bini viene arrestato a Roma dal vicequestore Giovanni Gasti, capo dell’Ufficio Centrale di Investigazione, e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli per alcuni anni. Perché? Sa troppe cose. Verosimilmente tra i documenti trafugati vi sono i nomi di personaggi eccellenti e si compie la scelta politica di coprirli con l’insabbiamento e il depistaggio. Infatti, col passare dei mesi, la polizia effettua altri arresti. Ma si tratta di pesci piccoli: una quarantina di persone fra informatori e sabotatori. In un’Italia ancora frastornata dal disastro di Caporetto, l’8 dicembre 1917 vengono arrestati a Roma da agenti dello stesso Ufficio investigativo gli ex parlamentari Adolfo Brunicardi, deputato di Rocca San Casciano, Enrico Buonanno, deputato di Capua, e Luigi Dini, deputato di Salerno, dietro mandato di cattura dell’autorità giudiziaria militare per «intelligenza col nemico». In base al capo di accusa, i tre si erano mantenuti in stretti rapporti con il comm. Filippo Cavallini e la marchesa Frida Ricci, ambedue arrestati a Roma il 20 novembre 1917, perché coinvolti nell’attività spionistico-finanziaria condotta a Parigi e in Svizzera da Bolo Pascià, avventuriero e imprenditore francese, che sarà fucilato nel 1918 a Vincennes per l’attività di spionaggio a favore dei tedeschi. Sono tratti agli arresti anche i responsabili materiali dell’affondamento della Benedetto Brin, il marò elettricista Achille Moschin, il sottocapo torpediniere Guglielmo Bartolini e il caporale Giorgio Carpi, disertore del 25° Lancieri di Mantova, portatore delle bombe. Non vengono tuttavia rivelate le menti e i mandanti presenti sul suolo italiano. Frattanto mons. Gerlach, accusato di tradimento e sospettato di essere coinvolto nel sabotaggio delle corazzate Brin e da Vinci, fra il 5 e il 6 gennaio 1917 ha già lasciato Roma, scortato da due agenti di pubblica sicurezza fino alla frontiera svizzera. Il ministro dell’Interno Vittorio Emanuele Orlando, attraverso il barone Carlo Monti, direttore dell’Ufficio per gli affari del Culto e intermediario tra l’Italia e il Vaticano, ha suggerito l’allontanamento prudenziale del prelato, prima che venisse spiccato il mandato di cattura nei suoi confronti. Non voleva incidenti con la Santa Sede. Per quanto riguarda i sabotatori, dopo un lungo processo, il 1° agosto 1918 il marinaio Bartolini sarà condannato all’ergastolo, pena poi ridotta a 18 anni, mentre il caporale Carpi e il marinaio Moschin verranno condannati alla pena di morte mediante fucilazione nella schiena, condanna poi tramutata in ergastolo. Alla fine, tra il 1937 e il 1942, saranno graziati e scarcerati nel “clima di amicizia e di alleanza” tra l’Italia fascista e la Germania nazista.

Autore: Marco I. de Santis
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