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Ipermercato, un mostro dentro casa DIBATTITO - Le ragioni del no
15 ottobre 2000

di Tiziana Ragno C’è chi dice no. Anche a un ipermercato, e persino di questi tempi. No, a quella vertiginosa sensazione di ritrovarsi di fronte a mega-scaffali variopinti zeppi di prodotti provenienti da ogni parte del mondo, e ancora no, a quella Auchan-mania della quale sono affette migliaia di famiglie portate a trascorrere il sabato tra gallerie commerciali e fast-food all’americana. Non è facile, da consumatori, sottrarsi al fascino della grande distribuzione: prezzi (apparentemente) più bassi, offerte speciali in ogni dove, possibilità di scegliere tra variegatissime gamme di prodotti e infine quella rasserenante sicurezza di avere tutto a portata di mano, con la certezza di non poter dimenticare nulla. A questo si aggiunge la convinzione che l’ipermercato possa rispondere adeguatamente alla forte domanda di lavoro: a Molfetta in tanti reclamano un posto di lavoro e la prospettiva di averne a disposizione 500 a breve, certo rende ancora più allettante l’idea dell’Auchan alle porte della propria città. 500 posti di lavoro? Ammettiamo che sia vero e che a beneficiarne saranno i molfettesi. Ma a quali condizioni? E soprattutto saranno davvero in grado di risolvere o anche solo tamponare l’emergenza lavoro? I giovani che cercano lavoro a Molfetta sono per lo più diplomati e laureati, e, quand’anche dovessero accettare di stare dietro una cassa, certo la prenderebbero come una soluzione precaria, neppure flessibile, solo temporanea e senza futuro. In ogni caso i contratti che generalmente impongono tutte le grandi catene di distribuzione, sono a tempo determinato, tendono a sfruttare il lavoratore, sottopagandolo e impedendogli ogni tipo di organizzazione sindacale. Dato sicuro è che un ipermercato innescherebbe processi deleteri per il tessuto commerciale esistente all’interno della città: un piccolo commerciante disarmato dinanzi al colosso multinazionale che gli fa concorrenza, difficilmente resisterebbe alla sfida; si inizierebbe con il ridurre le spese di gestione (vedi tagli di personale) finendo con il ricorrere a forme illegali di finanziamento già attive nella città (vedi usura). Oltre a non creare valore aggiunto, un ipermercato, come ogni altro esercizio a gestione multinazionale, non reinveste gli utili sul territorio su cui insiste: si tratta, infatti, di capitali destinati a lontanissimi lidi che solo difficilmente potrebbero dare impulso all’economia locale (vedi Casamassima, pioniera dell’ipermermercato, diventata ormai città fantasma). E veniamo alle alte e nobili ragioni culturali, assolutamente non meno importanti. L’insorgere di falsi bisogni e spregiudicati consumi, la fine ingloriosa del rapporto diretto tra produttore e consumatore (vedi ortolano sottocasa) e in compenso l’incondizionato affidarsi al grembo dell’IPER-MERCATO, alle sue sirene e alle sue allettanti trovate pubblicitarie, capaci di nascondere sotto sgargianti imballaggi anche il mostro della mucca pazza e del mais geneticamente modificato. Addio prodotti tipici, locali, di cui il consumatore conosce morte e miracoli, che riconoscerebbe tra mille, addio all’alimento biologico, troppo costoso per competere con gli OGM della Monsanto, addio al commercio equo e solidale, schiacciato dalle banane di Del Monte. E che dire dello stordimento da Auchan, oggi più forte e di sicuro più diffuso della sindrome di Stendahl, che ti costringe a stare lì dentro per ore, ipnotizzandoti fino a farti acquistare l’impossibile? Accettare di sfidare un colosso potrebbe essere molto pericoloso: quando si parla di mercato, anche la storia di Davide e Golia perde di ogni significato.
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