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Il velocista barlettano ricordato al P anathlon La lezione di Pietro Mennea: mai considerare un fallimento come tale va considerato come un'esperienza
15 aprile 2014

“Mamma, mi racconti una storia prima di dormire?” “Va bene Ale, una soltanto e poi a nanna capito?” “Certo mamma, una bella per favore!” “Allora vediamo... C’era una volta, un ragazzino di nome Pietro Mennea, nato a Barletta da papà Salvatore e mamma Vincenza e con quattro fratelli, che andava a scuola e faceva i compiti esattamente come te. Pietro, però, era diverso dagli altri suoi coetanei, aveva un dono molto speciale. La velocità. Riusciva a muovere le sue gambe ad un ritmo incredibile, lasciando di stucco tutti i suoi amici, che nelle gare quotidiane potevano guardarlo soltanto di schiena. Eppure, questo ragazzino il fisico da atleta non lo aveva affatto, e lui lo sapeva. Ma nonostante questo, non si dava mai per vinto. Aveva una spinta emozionale che lo portava ad allenarsi giorno e notte con esercizi fisici che avrebbero infiacchito persino un cavallo da corsa. Più si allenava, più diventava veloce. Sempre di più. Ben presto la notizia di un atleta formidabile che correva con le ali ai piedi si diffuse. Così, sfidanti di ogni età, provenienti da ogni angolo del mondo e con ogni mezzo loro consentito cercavano di battere il giovane campione. Si narra, infatti, che nel cuore della notte il ragazzo venisse svegliato per affrontare gare, che si cercava di rendere il più possibile equilibrate: lui a piedi, gli altri in macchina. Ci si accorse subito del fatto che non fossero equilibrate. Le macchine erano troppo lente per Pietro. Date le sue capacità non comuni, venne arruolato nella nazionale italiana e la sua apoteosi fu raggiunta in terra straniera. Precisamente a Mosca, precisamente alle Olimpiadi, precisamente nel 1980, precisamente nella finale dei 200 metri piani. Al colpo di pistola, Pietro si trovava in ottava corsia. Nei primi cento metri era quarto, fuori dal podio, fuori dalla gloria, fuori da quella medaglia d’oro che era sua. Che doveva essere sua. Ma come i grandi campioni in una frazione impercettibile qualcosa è mutato. Terzo... Secondo... Testa a testa con il primo... Oro. Solo un anno prima aveva scritto il suo nome nella storia, con un tempo stratosferico. 19’72”. Questi i suoi famosi numeri, questa la sua vittoria, questo il record mondiale che ha detenuto per 20 anni e ha fatto esultare tutto il popolo italiano”. Le storie a lieto fine sono sempre le più belle, poiché ci consentono di sognare, per questo il racconto lo concludo qui, dato che il fanciullo è già nelle braccia di Morfeo. La vita, però, molto spesso è altro. Un campione del suo calibro, che oltre ad essere un atleta è stato anche politico, scrittore, avvocato, commercialista. Troppo veloce in pista, troppo veloce anche in vita, contro un avversario che l’ha portato con sé, in una sfida che non ha potuto vincere. Non è tempo, però, di facili commozioni, dato che è già un anno che la “Freccia del Sud” ci guarda da lassù. E come giusto che sia, nel giorno previsto per ricordarlo, a Molfetta, precisamente a Palazzo Giovene, si è tenuto un incontro con tutte le personalità più eminenti della cittadinanza, per tener vivo il ricordo del campione e sottoscrivere il protocollo d’intesa tra Comune e Panathlon Club International, per avvicinare i giovani sempre di più allo sport, il più delle volte, il miglior professore di vita. Come concludere in maniera migliore, se non ricorrendo ad una frase di una sua celebre intervista: “Mai considerare un fallimento come tale. Il fallimento va considerato come un’esperienza. [...] Se oggi potessi, non mi allenerei 5 ore al giorno, ma 8”. Pronunciate da un campione come lui queste parole, denotano, senza dubbio, la sua medaglia d’oro nella vita. Ciao Freccia del Sud.

Autore: Alessandro Cincotti
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