Il pozzo di Orfeo
Da “I racconti del vento”
Voi non potete capire quante cose si vedano in un pozzo. In Sicilia ad esempio ci sono dei pozzi fantastici, lun- ghissimi ombelichi che affiorano sulla pelle terrestre per collegarsi con la pancia dell’Etna. Una cuccagna di meandri, una rete sotterranea di viuz- ze intrecciate che ospitano una quantità indefinita di esseri vi- venti e fantastici. Ogni pozzo chiuso dunque è un villo della pancia del mondo che viene otturato. Guardare per un umano l’uni- verso nel fondo di un pozzo si- gnifica avventurarsi come Orfeo nell’anti-mondo. Detto questo vi parlerò di un caso assai strano che è capitato ad un mio carissimo amico. Questi viveva in una grande città siciliana, una villa apparta- ta dal nucleo urbano. Una di quelle dimore in cui di notte stendendoti sulla nuda terra puoi ammirare l’univer- so con le miriadi di stelle e puoi sentirti un cretino qualunque messo lì per puro caso a spiare la vita celeste. Le notti d’estate sicule sono palestre per gli insonni. L’afa non fa dormire e a lungo diste- si sulla terra fa restare i più forti. Per sintesi e per destino lo chiamerò Orfeo il mio caro amico, che la sua storia è assai incredibile. Orfeo difatti era intento a scrutare le stelle nell’inter- mittenza sonora dei grilli e le civette. Dinanzi ai suoi occhi una luna grandissima si specchia- va nel nero cielo trapuntato di stelle. Una notte iniziò a sentire un lamento, prima dimesso, poi più denso fino a diventare un vero canto. Orfeo si figurò d’essere Odesso rapito dal canto delle sirene ma in verità nulla vedeva e certo non soffriva di acufene. Si alzò in fretta e con la squallida luce della torcia del suo telefonino iniziò a perlustrare la campagna che attorniava la sua villa. Il canto diventava sempre più pressante e sembrava qualcuno stesse facendo il suo nome. Gira e rigira ecco Orfeo si tro- va dinanzi ad un pozzo coperto con sole due tavole di legno. Era servito anni addietro ad irriga- re i campi, era un pozzo artesia- no profondissimo, ci voleva un lavoro di braccia energico per portar su l’acqua. Ad un tratto un colpo potente sferrato da di dentro l’aveva fat- to scoperchiare ed ecco dinanzi a se una figura scarna, un’om- bra, uno spettro chissà, il mio povero amico non poteva de- scriverla meglio di un poeta di- cendo che se vivessero le lamie quella ne era una rappresenta- zione vivente. Questa prese a parlare e disse: «Orfeo, non avere paura di me. È tempo e tu lo sai. Io sono la tua parca, il tuo destino. Non darmi le spalle ragazzo, io sono tua complice e amica. Qui tut- to è ordine e bellezza. Ti darò la mano e ti condurrò negli avel- li segreti dell’universo. Vedrai la luce nel pozzo. Tutto il nostro destino si compirà nel Bene e nel Bello!». Orfeo amico, inorridito, spa- ventato, iniziò ad urlare come un ossesso e a respingerla giac- ché quella presenza lo molestava con fare pressante. Chi l’aves- se visto dall’esterno probabil- mente l’avrebbe scambiato per un pazzo, per un ubriaco. Tutta- via sappiamo, queste due, essere le condizioni adatte a cogliere le più nobili Verità. Giocarono a rimpiattino, lui si nascondeva, si armava con zappe e bastoni e lei lo segui- va, gli si insinuava con il can- to e con la voce nella testa, lo placava e l’invitava in quel poz- zo oscuro. Arrivò il crepuscolo e le prime linee di luce che cancellavano sulla lavagna del cielo, le stelle, fecero desistere lo spettro che tornò velocemente nel pozzo non prima d’avergli detto le ultime parole: «tornerò Orfeo. Io sono solo un tramite della notte. Il mio nome è Moira». Questa in un attimo fu den- tro il pozzo e mostrò di se l’ultima imago, due occhi sfa- villanti come di lucciole accese che si chiusero sotto le due ta- vole di legno. Orfeo rimasto solo finalmen- te iniziò a ridere a crepapelle, come un invasato. Come Amleto non sape- va dire se avesse sognato, o se avesse vissuto un’esperienza paranormale. Però i segni lividi sulle sue braccia li vedeva, eccome se li vedeva! Non raccontò a nessuno dei suoi, dei nostri amici, se non a me. Abbiamo sempre avu- to una predilezione per i rap- porti epistolari, fatti ancora di carta, penne e francobolli. Fat- ti di musiche e cantanti con- divisi. Confidenze magiche ed esoteriche. Il mio amico Orfeo per diverse notti andò a dormire a casa dei parenti della sua fidanzata che abitava a pochi chilometri da quella villa che gli sembrava infestata. Tuttavia il richiamo della villa era fortissimo ed Orfeo pensò di metterci letteralmente una pietra sopra quella vicenda assurda. Con i giorni che passavano tutto gli diceva d’esserselo sognato quello spettro, quella parca di nome Moira. Chiamò per questo un operaio e gli chiese di cementare quel pozzo. Nessuno più avrebbe potuto disturbare la sua quiete. Detto fatto! Duecento euro possono far tornare la serenità. E per festeggiare il suo compleanno, ed anche per non passare la prima notte del ritorno alla villa, il mio amico caro chiama tutti gli amici a far festa nella villa. «Portate chi volete!», è stato l’invito più gradito fatto ai suoi amici siciliani. Più di cento persone si sono presentate alla Villa di Orfeo. Orfeo si è del tutto dimenticato del monito spettrale. Ha conosciuto gente nuova e tra tante persone non è rimasto indifferente ad una donna stupenda, Euphoria. L’ha tampinato per tutta la sera, bevendo con lui, parlandogli all’orecchio, seducendolo con i suoi seni le sue sinuosità, raccontandogli le sue maledette storie. Un’Euridice al contrario. E quando la musica ha iniziato a gonfiarsi nel volume lei come un serpente ha iniziato a stringergli il collo soffocando ogni istinto di lotta al destino. E gli ha chiesto di ballare nel punto più alto della villa, quella bocca di quel pozzo stagliato nello spa- zio in cui tutti ballavano. «Ed allora andiamo, balliamo, lasciamoci andare per una vol- ta alla seduzione di una donna così bella!». Questo ha pensato Orfeo pri- ma che si sgretolasse come pasta frolla sotto i suoi piedi quel co- perchio di cemento e sprofon- dasse nell’esofago della terra. C’è chi dice che non un urlo hanno sentito ma un riso bef- fardo di donna. Io sono venuto qui. Vedo una luna riflessa in un pozzo senza fondo. Ma non può essere così, perché lungo più di venti metri. Forse è una luce squallida di una torcia di telefonino. E mentre prego e medito ricevo una telefonata, rispondo e qualcuno dice: «Ciao sono Moira!»