La bibliografia salveminiana si arricchisce di un nuovo importante volume: Francesco Picca. Lettere a Gaetano Salvemini (1902-1924), curato da Pasquale Minervini. Ernesto Ricci firma la Prefazione, Marco Ignazio de Santis l’Introduzione. Edito dal Centro Studi Molfettesi, quale secondo volume della Collana Salveminiana, consta di 356 pagine e si avvale dell’accurata veste tipografica della Nuova Mezzina di Molfetta. Pasquale Minervini ha dedicato allo studio del Maestro molfettese buona parte del suo lavoro e delle sue pubblicazioni, condotte tutte con scrupolosa acribia: una lunga fedeltà e perseveranza d’intenti che gli fa onore e che ci consente di conoscere oggi Salvemini in tutte le sfaccettature della sua personalità. Purtroppo Minervini è prematuramente scomparso il 21 settembre del 2014, lasciando un grande vuoto negli studi storici molfettesi. Non ebbe il tempo di dare l’ultima revisione e pubblicare le 97 lettere di Francesco Picca al Maestro, conservate nell’Archivio Salvemini dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, e nella Fondazione Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini di Firenze. (Le lettere di Salvemini all’amico molfettese sono andate perdute durante il ventennio fascista). Da 25 anni lavorava all’impresa: trascrizione, annotazioni esplicative copiose e puntuali, controllo delle fonti e della bibliografia. Un lavoro improbo e prezioso che non meritava l’oblio. Per fortuna Marco Ignazio de Santis ha voluto testimoniare la fraterna amicizia e la comune fedeltà al magistero salveminiano raccogliendo la penna lì dove Pasquale l’aveva dovuta deporre, e completando da par suo il lavoro. Controllo della trascrizione, rimodulazione delle note esplicative compilazione degli indici, aggiornamento bibliografico, infine una densa ed opportuna Introduzione. Le corrispondenze, specie quelle che, come questa, abbracciano un lungo lasso di tempo, forniscono una miriade di notizie sia sulla personalità dei corrispondenti, sia sul clima politico, sociale e culturale nel quale essi vivono. La forma particolare della comunicazione epistolare, destinata, almeno nelle intenzioni originali, a non essere divulgata, elimina riserve ed autocensure, esplicita il grado e le modalità di percezione soggettive degli eventi e la reciproca stima e fiducia. Tutto questo, se conferisce alle lettere un vivido ed immediato pregio d’autenticità, assegna d’altra parte allo storico il non facile compito di avvicinarsi, per quanto possibile, alla “verità” dei fatti, oltre le pur sincere intenzioni e la buna fede degli autori. Sappiamo, infatti, come anche in epistolari considerati universalmente come fredde compilazioni di meri accadimenti, si possono individuare insopprimibili passioni e unilateralità, pur nella grandezza della visione e malgrado l’iniziale professione di imparzialità. Francesco Picca nacque a Canneto il 27marzo 1863. Completati gli studi, esercitò per qualche tempo l’avvocatura, dedicandosi poi all’amministrazione del patrimonio fondiario suo e della sua famiglia. Fu sempre stimato dai contadini per la sua probità e generosità. Ammiratore di Giovanni Bovio, fu consigliere municipale nel 1891, assessore nel ’93, Sindaco nel 1902. Dimessosi nel 1904 per le beghe dei repubblicani pansiniani, si allontanò progressivamente dalla vita politica attiva. Maturavano intanto e si consolidavano l’amicizia e la comunanza d’intenti con il giovane Salvemini, al quale fu sempre vicino e del quale sostenne e condivise le grandi battaglie politiche. Morì a Molfetta il 13 ottobre 1934. Come scrive de Santis “Dalle lettere emerge a tutto tondo la personalità di Picca, uomo incline alla malinconia e alla sottovalutazione dei propri meriti per modestia, ma capace di realistiche analisi politiche in relazione a particolari contingenze e attento agli equilibri delle alleanze”. Il Nostro sostiene Salvemini nei momenti di sconforto, incoraggiandolo a superarli: “Vedi dunque che l’avvenire non è così fosco come credi e che spesso siamo noi a caricare le tinte per avere occasione di tormentarci ingiustamente; il mondo è migliore di quello che noi pensiamo. Datti animo dunque, coraggio e avanti. La Rivoluzione avrà un po’ di pazienza e tu ti rimetterai in salute”. Quanto a se stesso: “Sono eccessivamente geloso della mia libertà e disprezzo certi metodi adottati da certuni che si servono di un’etichetta democratica per covrire merce avariata. Quale che sia la mia fede, questo nessuno potrà rimproverarmi, di avere cioè mai fatto cosa contraria ad un ideale profondamente sentimentale, democratico e umanitario. Posso errare in buona fede, per inettitudine, mai per malizia”. Nelle missive di Francesco Picca scorre la vita politica e sociale di Molfetta, in tutti i suoi risvolti, compresi quelli non privi di comicità, che non manca di riferire al giovane amico, persuaso com’è dell’inestricabile intreccio di commedia e tragedia che anima il palcoscenico della vita. Il 28 febbraio 1904 ha luogo nel convento di San Domenico un affollato comizio “Pro schola”, per denunciare le precarie condizioni della scuola elementare e dei maestri. Presente, naturalmente, l’ubiquitario onorevole Pietro Pansini. Ad un tratto, “un povero operaio condotto con tanti altri a quella baraonda con l’istessa indifferenza, con la quale sarebbero ad una predica sulla trinità di un solo dio, o sulle comete del secolo passato, presente e futuro, scocciato da tante parole di cui non capiva nulla, e che non lo riguardavano davvicino, esclama: E l’acquedotto pugliese? Figurati, caro mio, che pandemonio succede: alcuni vogliono dare addosso a quell’infelice e cacciarlo via, altri lo difendono, il delegato cinge la fascia ed ordina lo sgombro della sala, Pansini lo redarguisce, Gioacchino Poli sale su un banco per fare un discorso sull’acquedotto pugliese e Imbriani e mandare telegrammi a diverse parti della terra e del cielo. I 56 maestri e maestre di Molfetta che tengono 56 discorsi da sciorinare e gli altri degli altri paesi che restano con altrettanti discorsi rientrati, strepitano a caso e così chi grida, chi si agita come energumeno, chi vuole accapigliarsi col vicino, e chi se ne va via. Finalmente la calma viene da sé con lo squagliamento del pubblico: Schiralli legge un ordine del giorno, approvato da tutti, ascoltato da pochi, compreso da pochissimi e poi la sera a cena ridotto e concordato con l’on. Pansini. Ognuno dopo va a casa sua con l’istessa opinione di prima e chi s’è visto s’è visto”. Una scena esilarante (ed istruttiva) magistralmente descritta. A proposito di Gioacchino Poli, bonariamente canzonato da Picca per il suo esagerato protagonismo, vale la pena riportare un episodio verificatosi nel corso di una accesa conferenza tenutasi a Molfetta durante la campagna elettorale per le politiche del novembre 1904. Ad un tratto Gioacchino, nel bel mezzo di un tumulto, tra fischi e schiamazzi assordanti, animato come sempre dal generoso intento di conciliare l’inconciliabile, chiede la parola e… “Cittadini!”. Un sonoro pernacchio raggela l’intera adunanza e lo zittisce tra le generali risate. Tuttavia, la vis comica di queste tenzoni paesane non riesce a nascondere l’insofferenza ed il disgusto per le miserie della politica molfettese: “La nausea che mi destano i miei concittadini”, “Per il paese indolente, cretino e ingrato non vale la pena di occuparsi”. E, infine: “A che giova il maggior sacrifizio delle nostre finanze e delle nostre persone, in un ambiente che spara mortaretti all’annunzio dell’assoluzione di de Nichilo, ed organizza una dimostrazione con bandiere e fiaccole per andare fino a metà strada di Bisceglie a rilevare gli Attanasio che erano stati condannati a pochi mesi solamente, per bancarotta fraudolenta? A che giova il nostro sacrificio in un ambiente che delle buone azioni del movimento democratico moderno prende la scorza e getta via il frutto?”. Insomma, ottimismo della volontà e pessimismo della ragione pervadono l’intero epistolario, alternandosi in un comune e vicendevole sentire. Questo volume onora la memoria di Pasquale Minervini; a Marco Ignazio de Santis il merito di averne curato la stesura finale e la pubblicazione. Alle biblioteche il compito di acquisirlo e di conservarlo degnamente. Questi “testimoni”, solo apparentemente muti, anche nei giorni nei quali nella vita civile e politica sembrano prevalere il grottesco ed il farsesco, presidiano gli esempi del passato e ricordano ai temporanei perdenti la dignità e la necessità della lotta presente e la fiducia nel riscatto a venire.