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Il mondo del lavoro raccontato da Giacomo Pisani al caffè Allèmmérse di Molfetta Il giovane filosofo, redattore di “Quindici” ha partecipato al dibattito su sindacati e mondo operaio organizzato a Piazza Principe di Napoli: “La finanziarizzazione ha stravolto l'economia, e cambiato completamente operai e sindacati. Bisogna riorganizzare la cooperazione sociale dal basso”
04 novembre 2014

MOLFETTA - Accendere i riflettori, ancora una volta e con la maggiore decisione possibile su mondo del lavoro, lotte operaie e agitazioni sindacali, per capire come stiamo cambiando e dove stiamo andando. E' stato questo il tema forte del dibattito organizzato presso il caffè Allemerse di Molfetta e che ha visto la partecipazione di Giacomo Pisani, dottorando di ricerca presso l'Università degli Studi di Torino  in Diritti e Istituzioni nonché storico redattore di Quindici e Nicola Mancini, giovane sindacalista della Cisl. L'incontro moderato da Augusto Ficele, ha preso spunto dalle riflessioni sempre verdi del libro Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, un classico della letteratura italiana degli anni '70 (nella foto: Mancini, Ficele, Pisani).

“Un libro storico e potente che racconta la storia di un operaio arrivato dal Sud a Torino per lavorare alla Fiat. Ben presto capisce di essere stato risucchiato da un sistema che non lascia scampo e polverizza il tempo libero piegando tutte le tue esigenze a quelle del tuo essere operaio” ha sottolineato Ficele, mentre Pisani ha ricordato come “la storia del protagonista non è altro che la storia dell'operaio massa che in quegli anni sostituisce l'operaio specializzato che aveva dalla sua il supporto di tutta una serie di competenze che aveva accumulato in tutta la sua vita lavorativa. Balestrini sceglie un personaggio che rappresenta un preciso modello di operaio, un operaio che ben presto sviluppa processi conflittuali verso caporeparto e altre figure dell'azienda. Ottiene quasi sempre il licenziamento per essere poi assunto in nuove fabbriche, ma il punto è che sviluppa sempre altri conflitti. Lo sfruttamento che subisce sul posto di lavoro si traduce in disagio esistenziale. Quell'operaio si muove in una Torino in fermento dove sorgono movimenti e associazioni che cercano di farsi mediatori di questo disagio”.

Una situazione oggi, che sarebbe totalmente cambiata: “l'operaio massa, quello delle catene di montaggio, è in crisi. La produzione materiale sta cambiando forma e si sta spostando altrove. L'operaio quindi è costretto a ripensarsi continuamente. Ciò ovviamente ha delle ripercussioni anche sul sindacato. E' sulla produzione che si giocano i conflitti maggiori perché il capitale condiziona il modo di pensare”.

Uno stravolgimento del mondo del lavoro sul quale si è soffermato anche il sindacalista Mancini: “non possiamo più considerare lavoratori e sindacati seguendo gli schemi di un tempo. Io per esempio lavoro in una grande azienda impegnata nel settore del call center. Ebbene: ho un contratto a tempo indeterminato, ma strettamente legato alle commesse dell'azienda. Se le perde salta il mio lavoro. Da qui si capisce bene che tutto ciò che ruota attorno al lavoro è cambiato”.

La conferma secondo Pisani che “qualcosa nel sistema economico internazionale è saltato. Non esiste più il lavoro a tempo indeterminato anche quando è sancito per contratto. Una situazione di fatto che non possiamo ignorare. Anche il nemico quello che una volta chiamavamo il padrone, oggi è sbiadito, meno definibile, meno verticistico. Non c'è più una piramide che vede al basso gli sfruttati e all'alto gli sfruttatori. Per questo bisogna mettere in moto cooperazioni sociali dal basso in grado di leggere il passaggio d'epoca che stiamo vivendo”.

© Riproduzione riservata

Autore: Onofrio Bellifemine
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Nella misura in cui il mondo del lavoro è concepito come una macchina e meccanizzato di conseguenza, esso diventa la base potenziale di una nuova libertà per l'uomo. La civiltà industriale contemporanea mostra di aver raggiunto la stadio in cui “la libera società” non può più essere definita adeguatamente nei termini tradizionali delle libertà economiche, politiche ed intellettuali; non perché queste libertà siano divenute insignificanti, ma perché hanno un significato troppo ricco per confinarlo entro le forme tradizionali. Occorrono nuovi modi di realizzazione, tali da corrispondere alle nuove capacità della società. Codesti nuovi metodi possono venire indicati solo in termini negativi poiché equivarrebbero alla negazione dei metodi che ora prevalgono. In tal senso, libertà economica significherebbe libertà dalla economia, libertà di controllo di forze e relazioni economiche; libertà della lotta quotidiana per l'esistenza, dal problema di guadagnarsi la vita. Libertà politica significherebbe liberazione degli individui da una politica su cui essi non hanno alcun controllo effettivo. Del pari la libertà intellettuale equivarrebbe alla restaurazione del pensiero individuale, ora assorbito dalla comunicazione e dall'indottrinamento di massa, ed equivarrebbe pure all'abolizione dell'”opinione pubblica” assieme con i suoi produttori. Il suono irrealistico che hanno queste proposizioni è indicativo non tanto del loro carattere utopico, quanto dell'intensità delle forze che impediscono di tradurle in atto. La forma più efficace e durevole di lotta contro la liberazione è la coltivazione dei bisogni materiali e intellettuali che perpetuano forme obsolete di lotta per l'esistenza. L'intensità, la soddisfazione e persino il carattere dei bisogni umani, al di sopra del livello biologico, sono sempre stati condizionati a priori. Che la possibilità di fare o lasciare, godere o distruggere, possedere o respingere qualcosa sia percepita o no come un bisogno dipende da che la cosa sia considerata o no desiderabile e necessaria per le istituzioni e gli interessi sociali al momento prevalenti. In questo senso i bisogni umani sono bisogni storici, e, nella misura in cui la società richiede lo sviluppo repressivo dell'individuo, i bisogni di questi e la richiesta di soddisfarli sono soggetti a norme critiche di importanza generale. E' possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi. I bisogni “falsi” sono quelli che vengono sovrimposti all'individuo da parte di interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l'aggressività, la miseria e l'ingiustizia. Può essere che l'individuo trovi estremo piacere nel soddisfarli, ma questa felicità non è una condizione che debba essere conservata e protetta se serve ad arrestare lo sviluppo della capacità (sua e degli altri) di riconoscere la malattia dell'insieme e afferrare le possibilità che si offrono per curarla. Il risultato è pertanto un'euforia nel mezzo dell'infelicità. La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogni di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che gli altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni. E qui il “lavoro” entra in discussione.
I tempi sono cambiati e velocemente e molti sono legati, ancorati alle ideologie, restando ciechi e frastornati ai cambiamenti. Probabilmente la ragione è, per dirla in una parola sola, la “globalizzazione”. Nel nostro mondo nascondersi è diventato difficile e in molti casi impossibile. Tutte le economie sono intrecciate tra loro in un unico mercato competitivo, e nei giochi crudeli che si svolgono su questo teatro è impegnata dovunque l'intera economia. Sottrarsi a questi giochi è letteralmente impossibile, e gli effetti della globalizzazione si fanno sentire in tutti i campi della vita sociale. Lo scettico naturalmente inarcherà le sopracciglia e chiederà: siamo proprio certi che le cose vadano così? E perché dovrebbero andare così? E ancora: che cosa significa esattamente “globalizzazione”? Per come stanno le cose, lo scettico ha ragione da vendere: a tutt'oggi la globalizzazione è ben lungi dall'essere totale. Intere economie, tra cui quella cinese, sono più nazionali che globali (anche se una parte del successo conseguito all'interno è legato al loro coinvolgimento nel mercato globale). Si formano regioni economiche che mirano a creare mercati comuni o aree di libero scambio (anche se questa può essere una reazione alle nuove forze produttive della globalizzazione più che un rifiuto delle stesse). All'interno dei vari paesi attività importanti come assistenza medica, asili infantili e istruzione, sembrano sottrarsi completamente alla competizione globale. Perché la globalizzazione si è imposta? E perché si è imposta adesso? Non è ancora chiaro del tutto se la fine della guerra fredda sia causa o effetto di questo fenomeno; certo i paesi del blocco sovietico non erano più vitali dal punto di vista dell'economia. Una ragione è stata che il concetto di “paese o di nazione” ha perso buona parte del suo significato economico. Questo fenomeno, a sua volta, deriva dalla formazione di entità transnazionali a cui è risultato sorprendentemente facile combinare un certo grado di adattamento ai bisogni locali con la promozione di una strategia produttiva, di una direzione e di profitti di portata mondiale. Aggiungiamo a tutto ciò le due “rivoluzioni” (legate tra loro) della information technology e dei mercati finanziari, e vedremo delinearsi una scena economica di cui il mondo non aveva mai visto l'eguale. I confini fisici convenzionali incominciano a perdere ogni significato non solo in termini di servizi (basti pensare alla prenotazione di biglietti aerei) e alla fine anche in termini di produzione. Politica e tecnologia, spinte dal mercato e innovazione organizzative sono tutte cose che cospirano a creare, in aree importanti dell'attività economica, uno spazio completamente nuovo che chiunque (si tratti di aziende o di nazioni) può ignorare solo a proprio rischio e pericolo.
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