Il gergo della postmodernità
il nuovo libro di Giacomo Pisani
Il dibattito sulla postmodernità è tra le questioni di maggior complessità sulla scena culturale mondiale. In letteratura postmodernismo equivale (seppur non in toto) a “ilare nichilismo”, ad abbattimento degli steccati tra arte di massa e arte sperimentale, al patchwork citazionista, alla riduzione della storia ad “affresco decorativo e sperimentale” (soprattutto nei cosiddetti romanzi ‘neostorici’), a “deresponsabilizzazione” – per citare Luperini – “dell’autore rispetto ai significati dell’opera”. Se tutto ciò sia ancora pienamente in atto o si sia passati, con la tragedia delle Twin Towers, a un neomodernismo, che si riappropria della progettualità, è ancora oggetto di accesi dibattimenti. Il contributo di Giacomo Pisani, preceduto da una lucida e sincera prefazione di Augusto Illuminati, intitolato Il gergo della postmodernità e recentemente edito da Unicopli (Milano 2012), rappresenta senz’altro un momento interessante e stimolante, declinato sul versante filosofico-sociologico. Giacomo Pisani, redattore di “Quindici”, è un giornalista pubblicista, direttore responsabile delle riviste “Terre libere” e “Generazione Zero”. È co-autore, con Marino Centrone, Rossana de Gennaro, Vito Copertino e Massimilano di Modugno del volume La conoscenza in una società libera (Levante, Bari 2011). “La sfida del libro consiste nell’usare alcun categorie heideggeriane per leggere la società postfordista”, come evidenzia perfettamente l’Illuminati nella Prefazione. Alla parola carica di senso si sostituisce il gergo nella civiltà del “Si”. La neutralità è elevata a sistema di vita: l’uomo postmoderno soffre la “stagflazione antropologica”; all’apparenza dell’illimitata gamma di possibilità che sembrano schiuderglisi, da perfette fate Morgane, funge da contrappunto la perdità dell’identità. Pisani opera un continuo raffronto tra l’uomo moderno e l’individuo tipico della postmodernità. Il primo sperimentava l’assenza di tempo, soffocato negli ingranaggi di un “tempo spazializzato in una miriade di ‘ora’ in cui si s t rut tur ano le azioni da compiere per il proprio dovere”. Eppure l’acquisizione di consapevolezza dell’alien a z i o n e derivante dalle nuove condizioni di lavoro poteva in qualche modo aprire il varco a nuove “matrici di significazione”. Ciò non accade all’individuo pos tmode r - no, soprattutto al giovane che sperimenta le conseguenze del mondiale effetto domino. Due condizioni appaiono prevalenti: la disoccupazione, che induce al ciclico reiterarsi di un tempo vuoto, trascorso a bighellonare, perpetrando l’ovattato istituto del loungismo, o riempito di occupazioni comunque incapaci di favorire una restituzione di senso alla realtà. E poi c’è la schiera dei lavoratori precari: le sedi lavorative ne assorbono la linfa vitale, tacitando le zone d’ombra di una psiche che avverte il fallimento delle proprie aspettative e si attesta tra limbo e antinferno (perché insegue ossessivamente un’insegna sbrindellata, quel posto fisso quanto mai chimerico). Una forma peculiare di precariato è quella dei lavoratori del call center; nella loro quotidianità, la chiacchiera, regina del gergo postmoderno, è elevata a sistema di produzione. Il telefonista giunge a quella mansione da percorsi formativi diversi; è un operaio spesso sovraqualificato (il laureato, prima oggetto di rispetto, e ora sprezzato) rispetto a quanto gli si richiede di iterare ossessivamente. È uno dei volti dell’intellettuale legislatore detronizzato nell’epoca dell’istruzione diffusa. Quest’istruzione diffusa, tuttavia, come sottolinea bene Pisani, non è altro che, in molti, una tendenza alla riproduzione di una ‘medietà’ che appare più quietante agli occhi di chi auspica la perpetrazione degli “orizzonti neutri” della postmodernità. L’enfant terrible, l’irregolare continua a essere penalizzato dalle istituzioni formative, così come ai più alti livelli della ricerca universitaria, tutta indirizzata alla perenne “risoluzione di rompicapo” piuttosto che a favorire il libero dispiegarsi del pensiero. “Il metodo critico viene inscritto nella trama di significati già dati, senza che nulla possa essere sottoposto al vaglio del dubbio”. Alla metropoli pervasa dal fumo delle ciminiere si cerca di sostituire quei non luoghi rappresentati dalle “città della moda”. Essa è il luogo delle teoricamente infinite possibilità di acquisto; è l’apparenza quietante di casettine deliziose in cui non abita nessuno, perché il tempo delle isole felici è ormai trascorso. Se vengono meno i luoghi reali dell’incontro, se ne creano di virtuali ed ecco il trionfo dei social network, con i loro profili preconfezionati e il “mi piace” eletto a opzione predominante. La chat diviene il più comodo sistema per la vittoria della chiacchiera e del discorso alogico. Eppure il libro di Giacomo Pisani non è esclusivamente vox destruens: spazi di ricostruzione sono ancora possibili, attraverso “la valorizzazione del lavoratore all’interno del sistema produttivo” e soprattutto mediante la sostituzione agli “orizzonti neutrali” di “orizzonti in divenire”. Spazi di condivisione in cui l’Ich relativizza sé e l’altro (un ruolo chiave può essere acquisito in tal dimensione dal migrante), perché solo la “relativizzazione delle categorie”, purché non scantoni nella pericolosa impersonalità, potrà riattivare la volontà di progettare e rivoluzionare, “sfuggendo alla presa dell’appiattimento operato dalla razionalizzazione totale dell’assoluto in atto”.
Autore: Gianni Antonio Palumbo