I Precinieri
Il racconto I Precinieri
Sedevo sulla sabbia umida in costume da bagno, ma con sopra un golf, perché per me, abituata alle sabbie roventi delle nostre spiagge, faceva freddo. Un album sulle ginocchia, rapidi schizzi e una bambina che si avvicina cautamente. Avrà avuto sette-otto anni, esile, la carnagione bianca cosparsa di efelidi, un minuscolo costumino da bagno, incurante del freddo che sento io. Osserva incuriosita quello che faccio, le sorrido e intanto i genitori, poco distanti, la chiamano severi: “Don’t disturb, Valerie!” Mi rivolgo a loro assicurandoli che non mi dà alcun fastidio, si avvicinano e si avvicina anche mia sorella Liliana che prende il sole poco distante, non è freddolosa come me, e ci presentiamo. Inizia così una amicizia che durerà per tutta la vita di lui, nonostante la distanza colmata da lunghe lettere. Ci invitano per una “Nice cup of tea” in un bar vicino e poi ci vediamo ogni giorno sulla spiaggia. La spiaggia è quella antistante il College dove frequentiamo un corso di inglese, frequentato anche da giovani di tutte le nazionalità, nel Kent, a Westgate-on-sea. Arriviamo al College in taxi, un percorso piuttosto lungo, ne approfittiamo per un full immersion nella lingua e il tassista si complimenta per il nostro inglese. Con mia sorella ci siamo ripromesse di parlare sempre in inglese anche fra noi due. Appena arriviamo un ragazzotto seduto su uno scalino all’ingresso ci saluta con un: «‘N vedi! ‘Ndò so queste?». Cominciamo bene! Gli dico che se non si sforza di parlare inglese non si accosti a noi, ma non si sforza di parlare inglese per tutta la durata del corso e viene a farsi abbracciare quando ha nostalgia della mamma. Ci chiama “le mie ziette”. Nel College giovani di tante nazionalità diverse. I tedeschi sempre scostanti litigano in continuazione con gli italiani, che non fanno alcuno sforzo per imparare la lingua, ma con noi sono gentili. Ci sono anche persiani. Mahmoud è un ragazzo dolcissimo, generoso, diventiamo subito amici. Dicono che sia un principe. Faranaz, bellissimo, superbo, tratta tutti con arroganza ma con noi è amabilissimo. Pare che sia cugino di Soraya ma questo non aggiunge niente al suo fascino. Studia architettura ed è campione nazionale di non so quale sport nel suo Paese. Durante una Fancy dress”, una festa mascherata, dove tutti ci improvvisiamo maschere, quando vede che sono spaventatissima, per la maschera che ha sulla faccia (le maschere mi spaventano), si allontana e non mi viene più vicino. Poi balla da solo una danza araba. È affascinante. Dopo le lezioni, la mattina andiamo sulla spiaggia e sulla spiaggia sono già ad aspettarci i Prechner. Quando alla fine del corso, prima di tornare in Italia, li salutiamo Valerie piange, e anche noi abbiamo gli occhi lucidi. L’estate successiva vengono in Italia con un gruppo di colleghi di lavoro di Cecil, la moglie si chiama Kitty e mentre lui riesce a parlare un po’ di italiano lei è refrattaria, non va oltre “buongiorno” e “buonasera. Vengono per un Tour in Toscana e li invitiamo a lasciare il gruppo e a venire da noi, e così ogni anno si rinnova l’invito e la sosta da noi per qualche giorno. Cecil fa progressi con l’italiano, lei fa lunghi monologhi in inglese con la nostra domestica che dice di capire tutto (!) e Kitty prepara anche per lei grandi tazze di tè. Mio cognato li chiama “i Precinieri”. Uno spasso. In una delle loro venute in treno nel loro scompartimento c’è uno studente, cominciano a chiacchierare e il ragazzo, che se la cava bene con l’inglese, rimane sbalordito quando arrivando alla stazione Cecil, con il suo self-control inglese dice: «Ci nam’ è sciàie sciaméninne, ci nén-aim’è sciàie nén-zimme scénne». Ci aveva impiegato due anni per impararlo. Con noi è spesso il mio collega Mauro, che avendomi vista scrivere nell’intervallo una lettera in inglese, mi chiede di chiedere ai miei amici dove potere alloggiare a Londra. Lo invitano a casa loro e al ritorno lui dice che sono stati i giorni più belli della sua vita. Fanno amicizia con la mia amica Anna Maria e poi arriva “Mister Titino”, perché lo chiamassimo così non lo ricordo, era un cugino di Mauro che viveva in America, un tipo piuttosto rozzo ma divertentissimo, che parlava un misto di italiano, inglese e dialetto molfettese. Non ricordo se ci fosse anche lui quando abbiamo festeggiato le nozze d’argento di Kitty e Cecil. Ci avevano invitati tutti a Londra, cosa improponibile, e allora abbiamo festeggiato qui. Cena in un buon ristorante dove abbiamo donato loro una bella cornice d’argento, poi a casa mia, dove mio padre, eccellente pianista, si è messo al pianoforte e Cecil gli ha chiesto di suonare l’aria dalle “Nozze di Figaro” di Mozart che si è messo a cantare. Una voce in-tonata, ma “Non più andrai farfallone amoroso”, con tutte quelle erre e la pronuncia inglese era esilarante. Poi l’allegria è aumentata e Cecil intona “God save the Queen”, noi gli facciamo coro. “Se i miei colleghi mi vedessero-dice- non crederebbero ai loro occhi”. Allora non c’erano smartphone o videocamere, ma, dopotutto è più bello, più che a foto sbiadite i ricordi sono nel nostro cuore. L’ultima volta che sono venuti qui lui era stanco e visibilmente sofferente, anche se la sua gentilezza e la sua amabilità non erano mutate. Mio padre, da medico, era preoccupato. È morto pochi mesi dopo per un cancro allo stomaco. Con Kitty ci sono state poche altre lettere, quasi illeggibili, per la sua terribile grafia e poi non ha risposto più, né abbiamo più avuto notizie di Valerie, ma il gentiluomo inglese ha sempre un posto nel mio cuore. Quando arriverà il mio momento, vienimi incontro, Cecil e ci nam’è sciàie sceméninn… © Riproduzione riservata
Autore: Marisa Carabellese