“Ho visto morire mio padre senza poter far nulla. L'ho visto allontanarsi rapidamente spinto dalla corrente con la testa in giù, ho cercato in un gesto disperato di afferrarlo, ma non ce l'ho fatta.
Eravamo in tre aggrappati a quel salvagente, unica speranza di salvezza di noi naufraghi dopo l'affondamento del motopesca 'Mare e vento'. Poi è toccato a Mauro, anche lui non ha retto alle lunghe ore in mare e si è lasciato andare al suo destino. Allora ho capito che dovevo salvarmi e ho cominciato a nuotare con molta determinazione verso la costa”.
È il racconto fatto a «Quindici» da Francesco Cappelluti, 21 anni,(nella foto) l'unico superstite, che abbiamo incontrato qualche giorno dopo la tragedia. Egli ha voluto, con sofferenza, ricordare quei momenti per lanciare un messaggio a tutti coloro che nei propri ambiti di competenza, si attivino perché sia garantita una maggiore sicurezza e tranquillità per i lavoratori del mare, affinché queste tragedie, troppe, non si ripetano.
Ma riprendiamo il racconto dall'inizio. Il motopesca “Mare e vento” la mattina del 24 novembre, alle 2 lascia il porto di Taranto e si dirige nello specchio d'acqua a circa 6-7 miglia da Scanzano Jonico. Le condizioni meteomarine sono buone e nulla fa lontanamente pensare alla tragedia. Il lavoro si svolge regolarmente nella giornata del 24 e in quella del 25, quando, intorno alle 21.30 il comandante e armatore Vincenzo Cappelluti, 55 anni decide di prepararsi a rientrare con un carico di 500 chili di pesce, in buona parte già sistemato nelle celle frigo. Il capitano scambia qualche battuta con il suo collega Salvatore De Nichilo ancora intento a “salpare” le reti e gli consiglia di tornare a Taranto, perché la giornata di pesca si è già conclusa.
Poi, nel giro di pochi minuti la tragedia: era appena iniziata la navigazione di rientro con rotta 40-50° e mare forza 3-4, quando all'altezza di Policoro «mentre io e il motorista Mauro De Cesare, 46 anni – racconta ancora Francesco a “Quindici” – eravamo intenti alla sistemazione del pescato dell'ultima cala nella stiva frigorifero, siamo stati investiti da un'onda anomala proveniente dal giardinetto sinistro che, nell'impatto con la murata sinistra, sradicava il portello del corridoio dove ci trovavamo nelle suddette operazioni di stivaggio. Il locale motore era chiuso. L'onda fa sbandare la barca fino a farle toccare acqua dalla murata sinistra. La rete sistemata a poppa si sposta tutta sul lato sinistro determinando l'occlusione degli ombrinali del ponte di coperta, sempre dal lato sinistro. Parte della stessa rete si riversa fuori bordo, facendo appesantire ancora di più la parte già inclinata del motopesca e imbarcando rapidamente acqua, fino al punto da rendere impossibile la navigazione. Mio padre arresta la marcia, lascia i motori in moto e quando si accorge che la situazione è irrimediabile, perché il “Mare e vento” è paurosamente inclinato a sinistra, risale in plancia e chiama soccorso verso il “Maria Domenica” che si trovava a vista: “Salvatore, stiamo affondando”, urla nella radio. Subito dopo io e De Cesare ci togliamo gli stivali e l'impermeabile, io istintivamente mi reco in plancia per contattare, l'altro motopesca e, non ricevendo risposta, mi arrampico sulla ringhiera e sgancio il salvagente anulare e lo lancio in mare. Per lo sbandamento della nave era impossibile raggiungere i giubbotti e le altre dotazioni di salvataggio, perché si trovavano già nella parte immersa dello scafo. Impossibile raggiungere anche il canotto autogonfiabile. De Cesare, vedendo il salvagente, si è lanciato subito in acqua, l'ha recuperato e lo ha infilato. Qualche istante dopo la barca era quasi tutta affondata e io e mio padre, ci siamo buttati in mare raggiungendo a nuoto il salvagente».
Sono passati appena 4 minuti dall'onda e del motopesca non c'è più traccia e comincia l'odissea dei naufraghi tra disperazione e speranza. «Non ce la faccio, non ce la faccio, non riusciremo a salvarci», Vincenzo sente venir meno le forze e anche la speranza che il “Maria Domenica” possa raggiungerli. È notte, la visibilità scarsa, il buio è appena rischiarato da una timida luce lunare.
«Dopo 2-3 ore, non ricordo, il tempo era ormai infinito – aggiunge Francesco – sentiamo il rombo di un elicottero che ci sorvola, senza trovarci. Intanto le condizioni del mare peggiorano progressivamente. Noi cerchiamo di darci coraggio e di nuotare verso la riva, anche se papà ripete: non ce la faremo e nomina mamma e Angela (la sorella). Noi cerchiamo di dargli coraggio. Poi la forza del mare e la corrente contraria prevalgono rendendo vani tutti i nostri sforzi. Vedo papà rassegnato, stanco e dopo tre ore continua a bere acqua e non riesce più a nuotare. Ha cominciato a gonfiarsi sempre più fino a quando ha mollato la presa: ho tentato disperatamente e inutilmente di afferrarlo, ma non ci sono riuscito. Tra l'altro non sono un esperto nuotatore. E così l'abbiamo visto allontanarsi e poco dopo galleggiare a viso in giù».
Ha detto qualcosa prima di staccarsi, ha gridato, ha chiesto aiuto? «No, nulla, era già distrutto e incosciente».
La prima tragedia si è consumata. Poi tocca a De Cesare. Prima vengono meno le gambe, che si congelano per il freddo dell'acqua. A quel punto il motorista, forse consapevole che si avvicinava la sua fine, si rivolge al giovane e lo invita a cambiare posizione, lui esce dal salvagente ed entra Francesco. «Così ho cominciato a nuotare, trainando Mauro. Poi dopo una decina di minuti, mi sono accorto di essere più leggero. Mi sono voltato e l'ho visto galleggiare a testa in giù poco distante. Potevano essere le 4 del mattino circa. Allora ho capito che dovevo salvarmi e che dovevo far forza sulla mia volontà, per non farmi prendere dalla stanchezza, dovevo farlo anche per papà e Mauro. E via a nuotare con tutta la forza che mi era rimasta. Poi la speranza: un elicottero è arrivato vicinissimo a me, ma si è allontanato senza vedermi. Ho avuto un momento di scoraggiamento, volevo cedere anch'io. Ma mi sono subito ripreso e ho continuato a nuotare verso riva, favorito dal cambio di corrente, ora favorevole. Alle 5 non passava più nessuno nei dintorni. Credo di aver nuotato per circa 6 ore prima che, verso le 11 del mattino, un elicottero mi avvistasse e la motovedetta della guardia costiera di Taranto, mi raggiungesse e mi portasse in salvo. Appena arrivato a terra sono scoppiato in lacrime, un pianto irrefrenabile, mi tornava in mente papà, pensavo alla mamma, a mia sorella Anna di 17 anni, al drammatico futuro che ci aspettava».
Dopo il pianto liberatorio, Francesco è stato portato in ospedale per un controllo delle sue condizioni.
Abbiamo scoperto un particolare che ci fa pensare al ruolo che il destino gioca in queste vicende: Vincenzo Cappelluti e Mauro De Cesare erano nati lo stesso giorno, il 30 luglio del 50 il primo e del 59 il secondo, e sono morti lo stesso giorno, il 25 novembre.
Hai scelto questo lavoro per desiderio di sistemarti subito, oppure perché ti piaceva?
«No, non per guadagno, ma perché mi piaceva. Chiedevo a papà di portarmi sempre con sé nei mesi estivi durante le vacanze scolastiche. Ma lui non voleva che cominciassi quest'attività, diceva che era rischioso anche se lui, a differenza di Mauro che aveva avuto una brutta esperienza due anni fa a Termoli quando il motopesca su cui era imbarcato stava affondando (per questo aveva scelto di venire con noi) non aveva mai avuto incidenti. Papà faceva il capitano sulla “Maria Domenica”, poi l'estate scorsa aveva deciso di comprare una barca usata, ma rimodernata e a prova di sicurezza, e farsi armatore, per dare un futuro a me».
Come ricorda suo padre?
«Era l'allegria della famiglia. Ogni volta che tornava a casa era una gioia per lui e per tutti e ci teneva sempre allegri. Era un uomo tranquillo, ottimista e sicuro di sé, aveva scelto di lavorare nella zona di Taranto dove la navigazione non comportava problemi. Quando vedevamo il maltempo tornavamo indietro o se si annunciava burrasca, non accennavamo a prendere il mare, ma tornavamo a casa. Diceva sempre a mamma che solo quando avrebbe avuto una barca di cioccolato o di zucchero sarebbe venuto nelle nostre acque, più agitate».
Continuerà quest'attività dopo la tragedia?
«Sicuramente no. Forse papà aveva ragione: è troppo rischioso. Non me la sento. Ho il diploma di perito elettronico dell'Ipsiam e cercherò di trovare posto a terra, o forse su navi passeggeri: un'attività più tranquilla e sicura».
Questa la testimonianza del giovane Francesco, restano alcuni interrogativi fra cui il mistero dei soccorsi: come mai sono stati così lenti? come mai così imprecisi? Non avevano avuto una segnalazione precisa sulla posizione del motopesca? Sono tutte domande a cui dovranno rispondere le inchieste dell'autorità marittima e di quella giudiziaria.
Intanto la marineria da pesca di Molfetta torna a chiedere a gran voce interventi decisi per evitare queste tragedie e regole più flessibili, mentre i pescatori molfettesi si stanno adoperando in una gara di solidarietà per aiutare le famiglie delle vittime ad andare avanti, in un futuro che, per loro, appare molto incerto.
La tragedia del “Mare e vento” ripropone tutti i problemi della crisi della pesca (che “Quindici” ha trattato a marzo di quest'anno con un'ampia e articolata inchiesta), dove manca ancora una politica organica del settore sia nazionale, sia comunitaria. Sotto accusa è soprattutto la politica europea sregolata: fermo biologico inutile; rottamazione dannosa dei motopesca; regole rigide sull'uscita in mare; import massiccio di pesce dall'estero; carenza di personale con ricorso sempre più frequente a extracomunitari.
E sul mare a Molfetta si continua a morire.
Felice de Sanctis
direttore@quindici-molfetta.it