“Felice anno nuovo”?
Cosa è un anno nuovo? Perché ci si augura “felice anno nuovo” ad ogni Capodanno, con le stesse parole e le stesse ritualità ripetitive? Cosa cambia di anno in anno in ciascuno se non l’età che passa, la vita che avanza con le sue stagioni e una vaga percezione dello scorrere del tempo che in fondo è facile anestetizzare? Siamo noi a gestire il tempo o è il tempo a gestirci, mentre ci accompagna inerte e silenzioso durante il cammino, magari un po’ stanchi? Certo un anno con il Covid segna e non si lascia dimenticare. Come un anno in guerra, o come l’anno in cui è nato un figlio o ci si è sposati o in cui eventi drammatici hanno cambiato il corso della strada. Il 2020 si è imposto pur sempre come un anno difficile, specie perché questa volta è capitato a noi, così abituati ad un tempo che ci scorre addosso, o forse sopra: chi prima di noi ha vissuto queste epidemie (ebola, sars, malaria…) in Africa o in Asia in questo momento ci guarda stupito delle nostre paure, ma questo è un altro discorso. Il problema è stabilire che cosa è “nuovo”, cosa veramente ci ha cambiato o ci sta cambiando in una prospettiva di rimodulazione del sé, quale dimensione di reale novità riusciamo a percepire in questo tempo che pure corrisponde ad un timido e carico avvio d’anno. Il concetto di “nuovo” legato al tempo e quindi all’ “anno” in greco antico si rende in due modi: il primo è legato al termine “neòs”, che propriamente significa giovane, fresco, recente, dinamico. E’ nuovo tutto ciò che appare per la prima volta, che porta in sé un certo stupore, che può essere meraviglioso o inquietante, che può insomma sortire situazioni mai viste prima. Dunque in questo senso ogni anno non è un anno “neòs”, ovvero propriamente “nuovo”, perché ci portiamo dietro il bagaglio di ciò che continua, e veramente siamo più che mai disposti, in certi appuntamenti di Capodanno con noi stessi, a riprendere fili, storie, dinamiche mai interrotti. Tolti i primi che abbiamo vissuto, probabilmente per il mondo adulto ogni anno in questo senso non è più nuovo, bensì è una ri-partenza, una ricostruzione, una tappa di un sentiero il cui percorso in gran parte è stabilito e deve continuare, deve sostanzialmente ripetersi magari con qualche accorgimento in più. Raramente dunque si vive un anno “nuovo”. Ma c’è un secondo modo per parlare di tempo nuovo secondo il greco antico: il tempo nuovo è il tempo del “kairòs”, ovvero quello del momento giusto, inaspettato ma propizio, unico e irripetibile come un’occasione che capita una sola volta e rimane preziosa. E’ il tempo del rimettersi in gioco e ridiscutersi, ripensarsi, trovarsi “nuovi” perché adulti capaci di essere qui e ora, non “come” prima ma “da” prima, ovvero dalla propria storia che invita ad essere aperti al cambiamento e all’evoluzione migliorativa. Perché come ribadiva Pasolini “l’unica gioia al mondo è cominciare: è bello vivere perché vivere è cominciare sempre, ad ogni istante”. Il “kairòs”, il “momento giusto”, bisogna prenderlo e afferrarlo forti di una storia precedente, per poter affrontare una novità irreversibile e irrinunciabile, che ci porti ad essere altro e altrove. Il 2020 con tutto il suo carico di paura e di Covid, con il suo strazio così vicino e incombente ci ha obbligati a scoprirci nudi e incapaci, non onnipotenti e tanto meno sicuri, speranzosi e dipendenti da una Scienza che pure non si rivela esatta e con le risposte pronte, e che intanto ci consegna un vaccino necessario. Sì, il 2020 ci ha fatto sbattere il muso con la nostra debolezza politica (finalmente) e con la mediocrità che alberga in ciascuno di noi e che pure resta il principale nemico da combattere. Però il 2020 ci consegna al nuovo anno non con un “felice anno nuovo”, ma con la consapevolezza di un “kairòs” obbligato e irrinunciabile, che punti al meglio di noi e ci riporti ad una dimensione di speranza operativa. Noi adulti, noi politica, noi società civile, noi educatori, noi uomini e donne. Non saremo certo tutti pronti a rispondere positivamente a questo “kairòs”, non è pensabile e non è fattibile, ma di certo è obbligato a questo appello chi cammina, chi viaggia, chi è in piedi. Pochi? Tanti? Che importa, tanto è necessario, non abbiamo altra via d’uscita. Il “kairòs” non lascia via di scampo: ed è un tempo che richiede “Politica” da tutti i cittadini perbene, ovvero quelli buoni, quelli che quanto meno sanno di essere comunità e di appartenerci, perché da loro dipende la sorte e l’impronta del cammino. Ma anche perché “quando un uomo gode di prosperità per ciò che riguarda la propria situazione, una volta che la sua patria vada in rovina, egli è rovinato insieme ad essa ed in eguale misura, mentre se è sfortunato in una città fortunata si salva molto meglio” (Tucidide, II 60,3). Essere comunità, lavorare per la comunità civile e per lo Stato significa dunque salvarsi. Che questo 2021 sia il nostro “kairòs”. © Riproduzione riservata