Extracomunitari, la Caritas è la loro prima casa
INTERVISTA – Il direttore Pischetti: tanti cercano di impedirne la regolarizzazione. Due storie: un senegalese e un pakistano raccontano
La presenza di extracomunitari a Molfetta fa parte da tempo della realtà cittadina. Una realtà ben conosciuta dalla Caritas, centro di assistenza e di prima accoglienza degli stranieri che provengono dalle più svariate parti del mondo. Sappiamo già che la decisione di questa gente ad abbandonare la propria patria e famiglia è il più delle volte motivata dalla speranza di trovare in Italia una vita migliore da quella che lasciano nella propria terra, magari con un lavoro che permetta loro di mantenere a distanza i propri cari. Molti di loro con sacrificio e costanza riescono ad ottenere il permesso di soggiorno e a integrarsi completamente, conducendo una vita normale.
È il caso di Sylla che abbiamo incontrato un pomeriggio sul porto. Sylla ha 35 anni, arriva dal Senegal e più precisamente da Dakar, vive in Italia da quattordici anni, ha una perfetta conoscenza della nostra lingua.
Ha abbandonato presto la scuola e con un gruppo di conoscenti è approdato a Bergamo. Ha lavorato in fabbrica per alcuni anni, un posto assicurato ma una vita non facile ci ha detto, doveva scontrarsi ogni giorno con i pregiudizi razziali della gente del posto.
Così dopo aver un po' girovagato si è stabilito a S.Spirito e da alcuni anni vende pellami, girando per i mercati della zona. È sereno, ci dice che qui la gente ha molto più cuore e di aver trovato una seconda famiglia formata anche dai suoi connazionali che fanno, per la maggior parte, il suo stesso lavoro. Il suo desiderio più grande rimane comunque il ritorno in Africa con sua moglie e i suoi due figli che rivede ogni sei mesi.
Asad invece è pakistano, vende collanine e braccialetti, ha 30 anni e ha girato praticamente mezza Europa, Austria, Belgio, Francia, Germania, prima di stabilirsi nel Sud-Italia, a Napoli, dove non ha un posto fisso dove dormire ma è fiducioso nel futuro e anche lui pensa di aver trovato una sua seconda patria.
Le modalità di accoglienza in Italia degli extracomunitari stanno cambiando con l'arrivo delle leggi Bossi-Fini o della regolarizzazione che concede il permesso di soggiorno agli stranieri solo se si assicurano un alloggio, un posto di lavoro e un certo reddito. Anche a Molfetta la situazione-emigrazione sta evolvendo e per certi aspetti non in maniera migliore.
Per capirne di più abbiamo rivolto alcune domande a Giuseppe Pischetti, direttore della Caritas.
Qual è la difficoltà più grande che gli emigranti incontrano quando arrivano?
“Noi cerchiamo di garantire nei primi due mesi un pasto e un alloggio sicuro. La difficoltà più grande rimane affrontare il periodo successivo all'accoglienza dove quasi tutti si mobilitano per cercare lavoro e devono purtroppo accontentarsi dello sfruttamento indiscriminato di imprenditori locali. Sono loro il vero problema perché non permettono la “regolarizzazione” e l'integrazione di questa gente che lavora instancabilmente. È da anni che si è creato una specie di paradosso rispetto al Nord-Italia, lì non sono benevoli nell'accoglienza, ma assicurano tutti nelle fabbriche, qui siamo più tolleranti ma se lavorano, lo fanno in nero e sono sottopagati”.
Come avete notizia dei nuovi arrivi?
“C'è una stretta collaborazione con i servizi sociali e le forze dell'ordine che ci danno immediata notizia delle persone di cui ci dovremmo occupare; ma anche tra di loro è molto forte il passaparola, sanno dunque che devono rivolgersi qui”.
Secondo lei la sensibilità dei molfettesi è cambiata riguardo al problema emigrazione”?
Dal primo sbarco avvenuto nel '91, qualcosa è cambiato, sicuramente a differenza di allora quando si mobilitarono diverse forze sociali, l'attenzione verso gli extracomunitari si è affievolita tanto che Molfetta tempo fa è stata decretata città ideale per l'accoglienza, ma nessun tipo di istituzione si è interessato a questo “titolo” a livello nazionale. Per il momento dunque si respira un po' di lassismo, d'altronde anche i nostri volontari sono diminuiti notevolmente.”
In che modo operano volontari e obiettori all'interno della Caritas?
“I giovani del servizio civile o i volontari devono compiere un vero sforzo umano. Non tutti hanno dimostrato questa sensibilità in passato e adesso ci sono delle selezioni un po' più rigide. Sono loro, i volontari ad avere il primo impatto con gente che il più delle volte è disperata, e che ha un gran bisogno di essere ascoltata e compresa; molte volte si creano dei legami molto belli, tanto che anche quando l'accoglienza finisce, i nostri ragazzi continuano a mantenere i rapporti con le persone di cui si sono occupati per lo più in questo periodo polacchi, iracheni, marocchini e rumeni”.
Qual è il caso che l'ha colpita di più?”
Quello di una venezuelana, fuggita dal suo paese perché accusata di spaccio di droga, si è rivolta qui, e quando è andata via ci ha ringraziato dicendo che non ce l'avrebbe mai fatta senza il nostro sostegno e aiuto”.
Quella della emigrazione è una realtà che alle volte si ignora ma che nasconde tante piccole storie che forse trovano riscatto proprio qui, nella nostra città.
La Caritas opera nel territorio ormai da parecchio tempo, è diventata negli anni un aiuto concreto per chi non è troppo fortunato (e non si tratta solo di stranieri.), speriamo che la “fiamma” della speranza per una vita migliore, per tutti, rimanga sempre accesa.
Laura Amoruso