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E Salvemini scrisse: salvate il soldato Adelchi! Gaetano Salvemini Ugo Ojetti
15 ottobre 2016

Per lfItalia impegnata nella Grande Guerra venne anche il tempo delle áspallateâ autunnali. Il 9 agosto 1916 gli italiani avevano preso Gorizia. Il 27 agosto la Romania aveva dichiarato guerra allfAustria-Ungheria e nello stesso giorno lfItalia si era finalmente spinta alla sua dichiarazione di guerra alla Germania, insistentemente pretesa dagli alleati. Occorreva a questo punto alleggerire il fronte orientale a favore dellfIntesa e consolidare la conquista di Gorizia con il possesso della pianura tra il fiume Vipacco e il mare Adriatico. Il generalissimo Luigi Cadorna, consapevole di non avere le forze necessarie per scatenare una grande offensiva, stabili di portare degli attacchi mirati contro settori limitati del fronte. La prima áspallataâ si ebbe tra il 14 e il 17 settembre con la 7a battaglia dellfIsonzo. Si svolse esclusivamente sul Carso, ma non ebbe risultati soddisfacenti. La 3a armata del tenente generale duca Emanuele Filiberto dfAosta con i bersaglieri e le brigate gGranatierih, gFerrarah, gLombardiah e gNapolih doveva irrompere sullfaltura di Fajti (Quota 432) verso il Monte Trstelj per poi muovere su Trieste. Invece gli italiani riuscirono a mala pena a conquistare alcune trincee e una piazzaforte presso Merna, perche gli austro-ungarici del 7‹ corpo dfarmata dellfarciduca Giuseppe dfAsburgo tra la prima e la seconda linea di difesa interposero altre due linee intermedie munite di reticolati e magazzini con materiale bellico di pronto impiego, indietreggiando lentamente al riparo e sterminando col tiro di sbarramento dellfartiglieria, col fuoco rapido delle mitragliatrici, con lfuso dei lanciafiamme e dei gas lacrimogeni i soldati in grigioverde avanzanti allo scoperto. Il costo fu altissimo: in quattro giorni gli italiani ebbero 2.487 morti, 3.286 dispersi e 15.731 feriti, contro i 2.477 caduti, 4.493 dispersi e 12.806 feriti austro-ungarici. La seconda áspallataâ fu inferta tra il 10 e il 12 ottobre con lf8a battaglia dellfIsonzo con assalti del 26‹ corpo dfarmata di Alberto Cavaciocchi e dellf8‹ di Ottavio Briccola a sud di Gorizia e dellf11‹ di Giorgio Cigliana, del 13‹ di Giuseppe Ciancio e del 7‹ di Adolfo Tettoni sul Carso contro i corpi dfarmata austro-ungarici 16‹ di Wenzel von Wurm e 7‹ dellfarciduca Giuseppe e il gruppo Schenk, suddiviso in due brigate. La lotta fu accanita, con progressi territoriali minimi per lfItalia, ma perdite maggiori per gli austriaci. Infatti lfesercito italiano conto 3.042 morti, 5.790 dispersi e 15.132 feriti, ma i nemici subirono 3.919 caduti, 14.422 dispersi e 17.284 feriti, arretrando sulla seconda linea dopo furiosi contrattacchi. In considerazione di cio, il generale Svetozar Borojevi. von Bojna, comandante della 5a armata, chiese e ottenne dal capo di stato maggiore Franz Conrad una divisione di rinforzo. La terza áspallataâ fu data con la 9a battaglia dellfIsonzo fra il 31 ottobre e il 4 novembre nel tentativo di aiutare i Romeni in gravi difficolta. Lfazione si svolse sulla Vertoiba e nel settore centro-settentrionale del Carso. Fu conquistato il Dosso Fajti, ma sulla Vertoiba e nel settore centrale del Carso i progressi furono modestissimi. La sera del 2 novembre Cadorna ordino la sospensione dellfoffensiva, ma il duca dfA-osta ottenne di continuare lfattacco piu a sud, sulla strada da Oppacchiasella a Castagnevizza. Castagnevizza del Carso (ora Kostanjevica na Krasu in Slovenia), frazione di Merna, fu teatro di spaventose carneficine, testimoniate anche dal cimitero austriaco e da un ossario di guerra. Dopo due giorni di terribili perdite umane i risultati apparvero nulli per lfItalia. Tuttavia il gen. Borojevi., insistendo sulla pericolosita degli attacchi nemici, ottenne lfinvio di altre due divisioni sul Carso. Il bilancio di quella battaglia fu molto pesante per gli italiani, che ebbero 4.785 morti, 9.217 dispersi e 19.922 feriti, contro i 2.382 morti, 8.119 dispersi e 12.028 feriti austro-ungarici. Durante le tre áspallateâ, la brigata gBarih del maggior generale Luigi Piccione il 24 settembre fu spostata da Santa Maria La Longa verso Ronchi e il 27 rilevo la difesa del sottosettore di Quota 144, una collina brulla e pietrosa, sostituendo la brigata gLazioh e passando temporaneamente dalla dipendenza della 28a divisione a quella della 16a divisione. Iniziata lf8a battaglia dellfIsonzo, la gBarih mosse contro la Quota 144, su due colonne: a destra il I battaglione del 139‹ reggimento e il III del 140‹; a sinistra il II e III battaglione del 139‹. La colonna destra raggiunse il Vallone e Jamiano, frazione di Doberdo del Lago, ma fu respinta da un duro contrattacco e da una tenace difesa nemica. I fucilieri cechi appostati sulla Quota 144 nei pressi del Lago di Pietrarossa rigettarono tutti i tentativi italiani. Jamiano fu rasa al suolo. La colonna sinistra della gBarih, invece, supero le posizioni nemiche e catturo 1.200 austro-ungarici. Il II battaglione del 139‹ reggimento del tenente colonnello Federico Ferretti dal 10 ottobre era agli ordini del trentaquattrenne capitano di complemento molfettese Domenico Picca di Giuseppe e Maria Giuseppina Valente. Il comandante era sempre alla testa dei suoi uomini nellfattacco a munite trincee e si rivelo abile nel far prigionieri. Fino al 12 ottobre 1916 la lotta prosegui con grande accanimento. La gBarih perse 905 militari di truppa e 27 ufficiali, ma strappo nuovi lembi di terra e catturo altri prigionieri. Il cap. Picca, in una precedente azione ferito alla gota sinistra, venne colpito alla guancia destra da una scheggia, ma non abbandono il comando per portare a termine lfassalto. Il 15 ottobre, in un momento di calma, Mimi Picca scrisse a suo padre: áCaro papa: Sto esplicando tutta lfattivita e tutta la diligenza di cui sono capace. Ti assicuro che nel settore in cui sono, gli Austriaci se la passano molto male. Sono nelle trincee conquistate questi giorni. Ho a mia disposizione lanciabombe, lanciamine, lanciafiamme, 12 mitragliatrici, di cui 6 tolte agli Austriaci, piu due batterie da 105 e da 149 ai miei ordini. Finora il mio battaglione, oltre a piu di 1000 prigionieri fatti, ha messo fuori combattimento almeno altrettanti nemici. Lfaltra sera sono venuti al contrattacco alle due di notte; le mie bombarde, che provocarono un cataclisma, hanno fatto strage coi lanciafiamme. Ho bruciato un intero plotone nemico: i militi sembravano delle torce fuggenti. Tutti i mezzi piu moderni di offesa li ho usato con ottimi risultati; il terreno davanti a me e rimasto coperto di cadaveri nemici. Oggi cfe calmaâ. Per una ventina di giorni Picca diede il suo contributo ai lavori di sistemazione condotti dalla brigata per rafforzare le posizioni e preparare la nuova avanzata sul Carso. Il 31 ottobre, durante la 9a battaglia dellfIsonzo, la gBarih riprese lfassalto per completare la conquista della Quota 144. Dopo un intenso fuoco dfartiglieria di preparazione, il 1‹ novembre lfaltura fu raggiunta e vennero catturati altri 250 austro- ungarici. Condotto il suo battaglione alla vittoria, nello stesso giorno Picca trovo il tempo per scrivere la sua ultima cartolina: áCarissimo papa: Stamane abbiamo attaccato di nuovo e conquistata la seconda linea di trincee nemiche. Bella vittoria e buon numero di prigionieri. E morto intanto di una granata il povero [Luigi] Fornari, lfinserviente del Circolo Unione, qui arrivato da pochi giorni. E ferito il Sotto Tenente Rotondo; la sua ferita, al piede, e fortunatamente lieve. Io sono incolume da altre ferite, sebbene abbia passato dei brutti momentiâ. Il 2 novembre, mentre la gBarih si accingeva allfennesimo assalto, gli austro- ungarici cominciarono un nutrito bombardamento di preparazione a un proprio contrattacco, che poi non ebbe luogo in seguito alla conquista della Quota 208 ad opera di alcuni reparti della 33a divisione italiana. Mentre sotto il bombardamento nemico dirigeva i lavori di rafforzamento della nuova linea, alle 14:30 del 2 novembre il cap. Picca fu dilaniato da una granata nemica perdendo la vita insieme a 32 suoi soldati. Tra i morti vi furono i molfettesi Angelantonio Gadaleta, Giuseppe Ignazio Cappelluti e Giovanni De Ceglie, ferito ma poi spirato nellfospedaletto da campo n. 060 a Gradisca dfIsonzo. I pochi e miseri resti del cap. Picca ven-nero pietosamente recuperati e traslati nella dolina Kantzler vicina a Doberdò del Lago, nella quale fu allestito un piccolo camposanto per seppellire i caduti del 2 novembre. Il caso volle che presso il luogo della sepoltura, in forza alla 47a compagnia genio telegrafisti, ci fosse il tenente trentatreenne Adelchi Valente, zio materno di Mimì Picca, rimasto fortemente turbato per la morte del diletto e quasi coetaneo nipote e per la prossimità al cimiterino in cui si trovano le spoglie dello sfortunato capitano. Il sottotenente telegrafista, sesto e ultimogenito figlio del musicista Vincenzo Valente, si rivolse per aiuto a Gaetano Salvemini, che lo aveva molto caro per le sue doti intellettuali e morali. L’avv. Valente con l’avv. Vito Lefemine nel 1909 aveva accompagnato Salvemini andato come osservatore alle famigerate elezioni giolittiane di Gioia del Colle, descritte nel celebre saggio Il ministro della mala vita. L’anno dopo lo aveva seguito per le elezioni di Albano Laziale. Inoltre lo aveva coadiuvato nell’amministrazione e nella redazione della rivista L’Unità. Perciò Salvemini non lesinò il suo aiuto e interpellò a sua volta il giornalista, critico e scrittore Ugo Ojetti, che sul Corriere della Sera aveva denunciato le violenze subite dai salveminiani di Molfetta durante le elezioni del 1913. Ojetti, arruolatosi come volontario, era ufficiale di complemento presso il Comando Supremo Italiano in Udine, da cui aveva avuto l’incarico di proteggere le opere d’arte che si trovavano in zona di guerra. Sarà decorato e promosso da sottotenente fino al grado di capitano per meriti speciali, soprattutto per la salvaguardia dei monumenti e degli oggetti d’arte nelle zone colpite dal furore della guerra. Da Firenze il 17 novembre 1916 Salvemini gli scrisse in questi termini: «Caro Ojetti, puoi aiutare il nostro povero Valente in un momento penosissimo della sua vita? Si trova come ufficiale alla 47.a compagnia telegrafisti, 13° corpo d’armata. Un nipote a lui carissimo è stato ucciso da una granata a poca distanza da lui, ed è stato sepolto proprio dove lui è costretto a stare. Questa vicinanza gli toglie ogni calma – forse è già scosso dalla vita dei mesi scorsi. Non ci sarebbe modo di farlo mandare altrove? Te ne sarei assai grato, perché è un uomo d’oro e tutto il bene, che gli si farebbe, non sarebbe mai troppo». Ojetti ebbe il sospetto che Valente volesse sottrarsi ai pericoli della prima linea e manifestò il suo dubbio a Salvemini. Ma lo storico, che aveva molto a cuore la sorte del suo protetto, con una lettera del 26 novembre da Firenze fugò lo spiacevole sospetto e insistette per il trasferimento dell’ufficiale presso una sede lontana dalla sepoltura del cap. Picca: «Caro Ojetti, Valente, come ti ho scritto in un’altra lettera, che spero tu abbia ricevuta, non pensa affatto a “venire indietro”. Gli basta essere mandato in un altro luogo, che non sia… Salonicco o l’Albania. Egli è alla 47.a compagnia telegrafisti, 13° corpo d’armata. Quel che sia possibile fare, non so: mandarlo a un’altra compagnia, o a un altro corpo della stessa armata. Non conoscendo la organizzazione dei servizi, non saprei che dire. A lui basta andar via di là. Io aggiungo che bisognerebbe che non peggiorasse posizione (nei limiti del prevedibile). Credo che il bene, che gli avrai fatto, non sarà sciupato. […] Rileggendo la lettera, in cui Adelchi Valente chiama “aita, aita”, vedo che egli desidera che il Comando del Genio d’armata lo faccia passare in un’altra compagnia di telegrafisti d’armata». Dopo quest’ultimo intervento di Salvemini, fu poi lo stesso Valente a rivolgersi direttamente a Ojetti con due missive del 30 novembre e del 6 dicembre 1916. A un anno dalla morte del capitano Picca, il 18 ottobre 1917 all’eroico comandante fu conferita alla memoria una medaglia d’oro al valor militare. A suo zio Adelchi Valente, insieme al dolore di una così grave perdita, restò invece la grande consolazione di essersi salvato comunque dal rapinoso turbinio della guerra.

Autore: Marco Ignazio de Santis
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