Con Lucia Sallustio su Inter-City
“...Utopia e disincanto. Molte cose cadono, quando si viaggia; certezze, valori, sentimenti, aspettative che si perdono per strada – la strada è una dura, ma anche buona maestra. Altre cose, altri valori e sentimenti si trovano, s’incontrano, si raccattano per via. Come viaggiare, pure scrivere significa smontare, riassestare, ricombinare; si viaggia nella realtà come in un teatro di prosa, spostando le quinte, aprendo nuovi passaggi, perdendosi in vicoli ciechi e bloccandosi davanti a false porte disegnate sul muro… Viaggiare significa fare i conti con la realtà ma anche con le sue alternative, con i suoi vuoti; con la Storia e con un’altra storia o con altre storie da essa impedite e rimosse, ma non del tutto cancellate…” È con queste parole da “L’infinito viaggiare” di Claudio Magris che mi piace introdurre la poesia di Lucia Sallustio e della sua ultima silloge: “Inter-City”. “Non posso fare a meno di viaggiare: berrò la vita fino al sedimento: tutto il tempo ho goduto immensamente, ho sofferto immensamente, sia in compagnia di chi mi amava che in solitudine.”, dice in apertura l’Ulysses di Tennyson e l’autrice, parte vitale di un mondo a cui appartiene e spinta da necessità interiore a cui non può sottrarsi, ci conduce in un viaggio che è allo stesso tempo fuori e dentro di sé. Un viaggio che non può vederla solo mera spettatrice di ciò che accade intorno, chiusa in un guscio e senza anima, ma partecipe di situazioni sempre nuove e sempre diverse come diversi sono i luoghi, i sentimenti, le emozioni, le reazioni. Nella lirica d’apertura, “Inter-City”, “Al chiarore del giorno”, lei è già lì, sulla stazione. E nell’attesa di partire, discreta, ascolta e osserva persone che ogni giorno compiono un viaggio. Spesso sempre verso la stessa meta ma ogni volta diverso nella mente e nell’animo di ognuno. E attraversa stazioni e ascolta voci, incrocia sguardi e osserva movimenti e fissità. Vite diverse alla ricerca di dignità, di speranza. Spesso sono manichini meccanici che salgono e scendono dal treno. La mente è in confusione. Si creano legami, si accendono sorrisi. “La folla scorre, mi guarda e non mi vede”. E il viaggio riprende ricacciando l’odore del cappuccino nel bar mentre scorrono scenari consueti e non. Torna a sobbalzare il treno e l’autrice riprende consapevolezza del suo destino. Puntualissima ed efficace è la sua analisi senza perdere mai la forza incisiva che la poesia ha pur nella sua sintesi. Raffinata e allo stesso tempo puntuale la descrizione di persone e luoghi diversi per caratteristiche e rappresentazioni. Trascinante il ritmo lirico, a volte impetuoso per denunciare e ribellarsi, altre accondiscendente e lento quando accompagna le emozioni della sua anima più che della ragione. La silloge si propone in capitoli, come fosse un racconto, dove senza sosta i versi restituiscono con incisività e immediatezza lo sguardo e lo stato d’animo dell’autrice, che attraversa vite e mondi che mutano continuamente fuori e dentro di sé. La fuga è intesa come bisogno di venir fuori da un intrigo di pensieri, di incertezze… nella speranza di riaffermare un sentire personale, una coscienza sotto l’indifferenza dominante. (Diritti negati, appetiti mai saziati, doveri mai proclamati). Il paesaggio, spesso deturpato, che scorre dietro i vetri, aumenta l’angoscia ma: “Mi salva la speranza tenace/che fioriranno, un giorno, / i bei narcisi in copiose schiere. / Dritti fluttueranno al vento”. Il desiderio di tornare a casa la consola. La battaglia è ogni giorno e il ritardo del treno è metafora dei ritardi della vita: scadenze, obiettivi, esiti incerti. C’è ironia (“A new valediction”), ma anche rabbia contro la vanità, l’appetito e l’ignavia dell’uomo che sa solo chiedere. Stride il Natale, tra una povertà reale e un bisogno essenziale insoddisfatto. C’è tanta violenza, eppure suonano le campanelle. E tra passato e futuro la necessità di “percorrere il presente”. Finché la poesia si fa canto e incanto quando passa dal suo tormento interiore al sentiero da percorrere per trovare pace sotto l’ulivo e scrivere su di lui, trasformato in carta. Sicuro rifugio ancora e sempre la sua casa. Nelle immagini, dell’ulivo e della propria casa, l’autrice evoca, con grande liricità e con parole che riportano all’interiorità dell’uomo, la solitudine quale stato imprescindibile dell’essere umano che in essa si consola e si rigenera. E sopraggiunge il momento della pacatezza, della riflessione lenta. Cullata dal dondolio del treno l’anima si acquieta e anche le afflizioni diventano amiche di viaggio. Scorrono immagini che evocano mondi, ricordi, storie. “Annoda Rosina, annoda reti robuste” e “Ha occhi disperati…” il giovane afghano. La poesia si interroga sulle ragioni della vita, su chi c’è e su chi non c’è più. Ancora la malinconia che consola, la solitudine quale condizione imprescindibile dell’uomo in ogni sua scelta, la morte: “La paura sarà desiderio di un altro giorno di malinconia, la solitudine compagna prima dell’ultima Compagnia”. E la speranza che finiscano i giorni del viaggio. Ma la sua condizione richiama quella del protagonista di “Rimpatrio” quando sfuma il suo rientro. Unica conforto rimarranno i suoi viaggi nei luoghi della mente. In un continuo alternarsi di speranze e rassegnazione gli scenari, gli avvenimenti e le persone che la Sallustio propone in tutta l’opera hanno la forza evocativa di un pittore capace di rendere reale e palpabile qualsiasi rappresentazione animata o inanimata della realtà. Il treno che parte lentamente culla i ricordi che più l’hanno segnata: la morte precoce col suono di un violino, l’abbandono della terra natia e l’ignoto futuro in terra straniera del ragazzo afghano. Lo sguardo va benevolo a nuovi compagni di viaggio, pellegrini o viandanti verso luoghi più ameni. E con la gerla piena di poesie già scritte ripercorre gli stessi itinerari con una corsa che lenta rode il tempo. La soavità delle liriche finali coi ricordi di luoghi magici e incantati sembra voler ancora più addolcire e consolare l’animo deluso. E il riscatto della poetessa difronte al destino è tutto nella chiusa della Silloge quando il poeta riprende il suo ruolo di narratore e dice nell’hayku: “Ti rubo storie Vita che impietosa ci rubi i sogni”.